Kokuhaku (Confessions)
Kokuhaku (告白, Confessions). Regia: Nakashima Tetsuya; soggetto: dal romanzo di Minato Kanae; sceneggiatura: Nakashima Tetsuya; fotografia: Ato Masakazu, Ozawa Atsushi; interpreti: Matsu Takako, Kimura Yoshino, Okada Masaki; durata: 106′; prima: 5 giugno 2010.
PIA: commenti 4/5 All’uscita delle sale: 79/100
Punteggio: ★★
Links: Sito ufficiale – Mark Schilling (Japan Times)
Tratto dall’omonimo mistery di successo di Minato Kanae (in uscita in Italia a maggio presso l’editore Giano nella traduzione di Gianluca Coci), il film è stato scelto come candidato giapponese per l’Oscar al miglior film straniero 2011 ma non ce l’ha fatta a entrare nella cinquina finale.
Una insegnante di scuola media (Matsu Takako) perde la figlia di quattro anni, uccisa da due adolescenti per puro divertimento. Sconvolta e disperata perché la polizia ben poco può fare vista la giovane età dei colpevoli, costruisce una strategia di vendetta privata che la porterà a insegnare nella classe dei due giovani pur di poterli perseguitare. La traduzione del titolo è “Confessioni”, al plurale, perché il film si articola attraverso i racconti-confessioni della vicenda dal punto di vista dei principali protagonisti. Da un capitolo all’altro la storia, accompagnata da una invadente colonna sonora rock, cresce sanguinosamente fino a un finale non conciliatorio e un po’ eccessivo in quanto a urla e strepiti. Il ritratto degli adolescenti giapponesi che ne emerge è prodondamente inquietante, tantopiù se si tiene conto che stiamo parlando di studenti di scuola media, dove i più anziani hanno 15 anni: bullismo, violenza, assenza di futuro, famiglie disgregate, solitudine, pulsioni di morte. Altro elemento da rilevare è la presenza dell’AIDS nella storia (seppur con riferimento a un insegnante), cosa non frequente nei film giapponesi.
Più che un mistery o un dramma sociale è un film nero che non fa paura e non fa piangere. Le regole del mistery sono infrante fin dall’inizio per dare spazio all’analisi dei personaggi e a estetismi cromatici artisticheggianti. L’uso creativo, e barocco, dei colori era già presente negli altri due film di successo di Nakashima: Shimotsuma monogatari (Kamikaze Girls), e Kiraware Matsuko no isshō (Memories of Matsuko). L’altro elemento che si ritrova in questo film sono le alterazioni del tempo di alcune riprese, in certi casi rallentate e in altri accelerate, entrambe poco piacevoli.
I temi affrontati sono tutti “giusti” (cioè meritevoli di attenzione) e interessanti ma il modo in cui vengono trattati non è convincente. L’ “analisi sociale” è più dichiarata che mostrata; l’analisi delle psicologie dei vari personaggi è subordinata all’ansia di questo regista sopravvalutato di mostrare il suo valore di artista. Emblematica è la rappresentazione delle varie morti, di cui viene enfatizzato l’aspetto estetico dei movimenti o l’effetto pittorico del sangue che cola o si diffonde.
Matsu Takako, che giustamente ha ricevuto vari premi per questo film, è molto brava nel recitare la parte della madre: bianca in volto, pronuncia i suoi discorsi di vendetta con tono piatto e uniforme, senza mai scomporsi. E’ lei stessa un fantasma, un angelo della morte.
In un ruolo minore va comunque menzionata la sensuale Kimura Yoshino, madre di uno dei due assassini, ostinatamente incapace di comprendere le colpe del figlio. [FP]
Confesso di aver visto il film senza sottotitoli e quindi di averne avuto solo una comprensione parziale. Devo però dire – che forse proprio a partire dalla sua intensità visiva – mi ha colpito abbastanza. Di Nakashima avevo apprezzato molto Kamikaze Girls, un po’ meno Memories of Matsuko. Mi sembra che Confessions trovi un efficace punto d’equilibrio fra lo stile barocco proprio al regista e una certa eleganza e più composta scrittura (a volte anche troppo elegante e composta). Penso al bellissimo inizio che attraverso una messinscena a mio avviso folgorante stabilisce quel baratro che divide due generazioni (l’insegnante adulta e gli studenti adolescenti) che poi tutto il resto del film svilupperà e specificherà. O ancora a quel breve frammento – da grande musical – della danza in classe degli studenti (una manciata di secondi: ma mozzafiato). Nel film ci sono indubbiamente echi di certo cinema (postmoderno) occidentale: il Gus van Saint di Elephant (quei ralenti all’interno della scuola che non sono piaciuti a Franco), forse il Peter Jackson di Amabili resti. Sicuramente c’è anche – ed è l’influenza maggiore – lo Tsui Hark di Dangerous Encounter. È probabilmente degno di nota che due dei più accreditati film giapponesi dell’anno siano dei noir che hanno come protagonisti dei giovani, qui giovanissimi, che si macchiano di colpe atroci (come del resto accadeva anche nel bellissimo romanzo di Kirino Natsuo, Real World). Segno che anche in Giappone, pur senza Berlusconi, ci sono parecchie cose che non funzionano, e che la generazione dei padri ha probabilmente un discreto numero di scheletri negli armadi, e per altro probabilmente mal nascosti (un po’ come i festini di Arcore). Secondo me il film, nonostante qualche compiacimento formale, conferma come il cinema giapponese sia fra i più efficaci al mondo nel saper ritrarre le ansie e le angosce delle giovani generazioni (e questo almeno dalla seconda metà degli anni cinquanta coi film tayozoku e poi, ovviamente, con quelli di Oshima). Se non fosse che le mie previsioni non si avverano mai, scommetterei sulla vittoria del film al prossimo Far East di Udine (sempre che il film venga selezionato, come credo, poiché Nakashima è un pupillo del Festival) Per il momento aspetto la prevista traduzione italiana del romanzo (Coci: «al lavoro!»), e rimpiango l’esclusione del film dalla cinquina degli Oscar per il miglior film straniero (notizia di stamattina) [Genji].
Sull'inizio folgorante sono d'accordo anch'io. Ma dura poco. Il resto l'ho trovato quasi sempre eccessivo e gratuito. Proprio il frammento da musical mi ha trovato particolarmente freddo. Non mi piacciono le ibridazioni fini a se stesse, se non quando sono inserite in un contesto puramente giocoso come le scene finali dello Zatōichi di Kitano.
E' certamente vero che la disgregazione del sistema delle relazioni interpersonali è uno dei grandi problemi della società giapponese e che vi siano dei registi giapponesi meritevoli di aver colto e di illustrare queste dinamiche. Non sono però sicuro che Nakashima sia uno di loro. Mi sembra più preso dai suoi esercizi stilistici che dall'ansia di analizzare le dinamiche sociali.
La nostra divertente divergenza di pareri sul film trova padrini illustri su entrambi i fronti.
Hochi Film Award: Nakashima miglior regista
Japan Film Award: terzo miglior film , miglior attrice protagonista (Matsu Takako), migliore attore non protagonista (Okada Masaki), migliore attrice non protagonista (Kimura Yoshino)
Kinema Junpo: secondo miglior film
Tama Cinema Awards: miglior film
Yokohama Film Festival: secondo miglior film
Eiga Geijutsu: peggior film dell'anno
.
Qualche considerazione cosi' anche un po' fuori tema,
non condivido per niente ( magari sara' un mio limite) l'abitudine di far le liste dei peggiori (libri e film) e penso che sia cosa piu' produttiva far conoscere il perche' qualcosa ci sia piaciuto o al limite il perche' non ci sia piaciuto, ma eigageijutsu avra` le sue ragioni probabilmente…
detto questo, da un po' di tempo a questa parte, quando vedo o leggo delle storie che parlano di studenti che uccidono o affinita' varie, mi cadono le braccia. La mia prima reazione di pancia e' " ancora! C'e' n'e' davvero bisogno?!" Certo poi razionalizzando mi rendo conto che potrei essere parte in causa ( figlie che frequentano scuole giapponesi…) pero' parto sempre con una forte tara su queste cose.
Real World mi ha fatto lo stesso effetto, poi naturalmente la scrittura e l'analisi/descrizione dei personaggi fatta dalla Kirino si riscatta.
Non posso dire lo stesso di Confessions, concordo con l'elogio delle prime scene e alla fin fine anche con il meccanismo narrativo, ma alla fine non so, c'e' qualcosa che non mi quadra, provo proprio un senso di fastidio.
Basta con le storie ambientate a scuola! ah ah
ma forse e' solo un mio segreto desiderio di vedere film alla Truck Yaro! ^^
matteo
Ho ricevuto una mail che mi avvisava che era stato postato un nuovo commento. Sul sito, però, di tale commento non c'è traccia. I casi sono due: o c'è stato un errore tecnico oppure l'autore del commento ha deciso di cancellarlo. Nel dubbio, lo ripubblico, restando ovviamente a disposizione dell'autore nel caso lo voglia rimuovere.
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Sanko ha scritto (alle 12 febbraio 2011 15:37):
Visto tutto in lingua originale, penso che sia un gran film con qualche comprensibile pecca. Il mettere da parte l'elemento mistery ha di fatto indebolito la storia e sono d'accordissimo con il blogger che definisce Kokuhaku un film nero, che non fa paura, nè piangere. Ma, mi preme dire che non penso sia stato diretto per questi scopi. Come non ho affatto visto l'intenzione da parte del regista di dedicarsi all'analisi sociale, tanto cara a certo cinema "impegnato" ed eccessivamente didascalico nostrano. Anzi, a mio avviso, il regista fa l'esatto opposto. Il film sublima varie storie, rappresentando una spettacolarizzazione della violenza che mi ha riportato al cinema di Peckinpah (Straw dogs, sopratutto). La violenza per sè stessa. La violenza perchè esiste. Il regista si trasforma in scrittore, narra la vicenda con una focalizzazione interna, ma mantenendosi equidistante da tutto e tutti. Lui monta, sceglie ed alla fine riassume tutto con una frase che suona come il nostro "Bluff". Sceglie sì l'ordine delle confessioni, in modo da confonderci e interessarci al punto giusto, ma almeno personalmente, non vedo un solo intervento diretto, verso il bene o verso il male. Quando il blogger scrive "Emblematica la rappresentazione delle varie morti, di cui viene enfatizzato l'aspetto estetico dei movimenti o l'effetto pittorico del sangue che cola o si diffonde." mi sono chiesto "emblematico" di cosa? Di quanto il regista voglia dimostrare di essere un'artista? Ma il cinema è per intrinseca definizione "la settima arte" e come tale, c'è chi la strumentalizza, piegandola ai suoi fini, e chi la vive per sè, l'art pour l'art. Io, questo film, l'ho visto con quest'ultimo sguardo.
Infine, vorrei evidenziare la prova IMMENSA di Yukito Nishi, classe 1995…Penso che recitare quel ruolo in maniera così naturale per un ragazzo di 15 anni appena compiuti, significa davvero essere sulla buona strada per diventare un grandissimo attore. Spero solo non si perda…
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Sanko,
sono abbastanza d'accordo con quanto sostieni articolatamente. Anch'io non ho visto un'intenzione "sociale" del regista e enanche a me piace l'"impegno a tutti i costi". Però, nenache mi piace la ricerca estetica fine a se stessa. In Peckinpah, che tu giustamente citi, la rappresentazione stilizzata della violenza era sempre funzionale alla rappresentazione di un contesto, non necessariamente e solo sociale. In Nakashima, invece, ho avuto sensazione di gratuità. Per questo, come hai rilevato correttamente, ho usato la parola "emblematico": di quanto il regista vuole dimostrare di essere bravo. E' vero che il cinema è arte e un autore è libero di esprimersi come vuole ma un conto è mostrare una cosa ed essere bravi nel farlo, un altro conto è mostrare di essere bravi a tutti i costi. C'è una differenza di enfasi.
Ce l'ho da parte da tempo e, visti i commenti, non vedo l'ora di vederlo.
Quasi quasi mi viene voglia di riguardarlo alla luce di tutti i commenti ….
Film molto ben girato, con buona dose di esperienza e ricco di personalità registica. Può piacere o provocare fastidio, però, questa personalità, perché è molto dirompente e a tratti sfiora l'autocompiacimento. Esagerato l'uso del rallentatore, e probabilmente anche eccessivo l'utilizzo dell'accompagnamento musicale che invade qualsiasi dialogo (mi ha ricordato, in questo, l' Iwai Shunji di Swallowtail).
La tematica inflazionata, incentrata su giovani (in questo caso però davvero un po' troppo giovani) senza valori e con un forte senso autodistruttivo, ma anche pronti a mettersi contro i propri compagni senza batter ciglio, non mi ha provocato particolari fastidi perché credo che comunque rappresenti un problema vero e tangibile in Giappone.
Nonostante questi aspetti è un lavoro che consiglio di vedere a chi non l'ha fatto, perché è un lavoro estremo (amo gli estremi) e ben girato. Ad ognuno le sue conclusioni.
Sono molto d'accordo con la tua analisi. In generale, non mi piace molto lo stile di Nakashima, però non si può certo dire che sia un incapace.
I film eccessivamente stilizzati suscitano sempre pareri contrastanti e spesso tradiscono (anzi esibiscono) un compiacimento un po' fastidioso. Io ho odiato il film precedente di Nakashima ma questo l'ho adorato. Tra i meriti c'è anche quello di essere una trasposizione fedelissima (una volta ogni tanto ci sta) di un romanzo. Proprio lo stile barocco e un po' videoclipparo aiuta a condensare, senza mai tradirlo, un libro mediamente lungo in soli 105 minuti.