Tetsuo: The bullet man
Tetsuo: The Bullet Man (鉄男 The Bullet Man). Regia, soggetto, sceneggiatura e fotografia: Tsukamoto Shin’ya; interpreti: Eric Bossy, Monō Akiko, Nakamura Yūko, Tsukamoto Shin’ya, Stephen Sarrazin; durata: 71′; prima: 22 maggio 2010.
PIA: commenti 3,5/5 All’uscita delle sale: 65/100
Punteggio ★★
Link: Sito ufficiale – Tom Mes (Midnight’s Eye) – Nicholas Vroman (a page of madness) – Raffaele Meale (cineclandestino.it) – Luciana Morelli (movieplayer.it) – Todd Brown (Twitch)
Tsukamoto ritorna dopo (tanti) anni al personaggio che lo ha reso famoso, il mutante, l’uomo – macchina. Lo fa con un film (quasi) completamente parlato in inglese, in cui il volto del mutante è quello di Erik Bossick/Anthony, uomo d’affari occidentale sposato con una donna giapponese, con un figlio, Tom. Il bambino viene investito da un’auto guidata da un personaggio inquietante (interpretato dallo stesso Tsukamoto) che lo uccide brutalmente. Da quel momento Anthony comincerà a trasformarsi in un cyber e dovrà confrontarsi con il passato del padre, scienzato affascinato da esperimenti di innesti metallici su corpi umani. La vita di Anthony si dividerà drammaticamente su più fronti, quello della battaglia contro un corpo (il suo) in evidente ribellione cibernetica, quello contro i “cattivi” che lo vorrebbero morto, quello contro i ricordi, in particolare di una madre (assistente di laboratorio del padre) morta di cancro, quello nei confronti della moglie assetata di vendetta per la morte del figlio.
Ne è passato di tempo (e si avverte) da quel primo deflagrante capitolo della “saga” che era stato Tetsuo – The Iron Man nel 1989, delirio irrefrenabile in bianco e nero di mutazione di corpi (senza ritorno), vertigine senza limiti, densa di allucinazioni sessuali: vero e proprio manifesto cyberpunk del regista. Nel remake a colori, del 1992, Tetsuo II – Body Hammer, Tsukamoto, con mezzi economici più consistenti rispetto al primo, aveva voluto delineare meglio i personaggi, sviluppare una storia. Quella di un uomo a cui una banda di balordi rapisce figlio e moglie, la cui rabbia determina la mutazione in uomo-macchina. Un secondo capitolo più curato, ma comunque coerente con l’incubo precedente, violento e surreale.
Ora il mostro è tornato, sì, ma i suoi artigli sembrano meno acuminati e il suo pene non si trasforma più in una trivella mortale…Certo, i temi sono ancora quelli dell’alienazione, della carne che si fa metallo in un’omologazione assoluta, della metropoli (Tokyo, i cui paesaggi urbani sono ripresi con maestria), della trasformazione attraverso il dolore e la morte. Ma il clima è patinato, l’atmosfera a tratti soffusamente trendy. L’erotismo non è più quello distruttivo e morboso, sembra piuttosto un fantasma negli occhi di una moglie forte e determinata che in un’unica occasione si stringe al corpo fumante del marito trasformato. Il protagonista non è più il modesto impiegato giapponese, ma l’uomo in carriera americano (e il volto pallido di Bossick non regge il confronto con i precedenti…). Anche lui, viene stimolato alla trasformazione dall’uccisione del figlioletto, ma si ritrova poi ad affrontare anche il proprio passato e ricordi dolorosi che emergono da un diario vergato dal padre. Alla storia, introdotta nel secondo film “Tetsuo”, si aggiunge in questo terzo la memoria e il mondo interiore del confronto con essa, ma si sconta ulteriormente in originalità ed impatto. Evocano gli antichi splendori del delirio cyberpunk alcune sequenze della trasformazione, punteggiate da suoni pesanti e ossessivamente ripetuti, certe riprese frenetiche.
Eravamo stati abituati a mostri irreversibilmente perduti nell’universo meccanico della mutazione. Non più. Il mostro entra nell’incubo e ne esce, andata e ritorno dagli inferi, ci gioca (come sembra effettivamente fare nell’ultima scena del film, sorprendendo i ragazzotti che tentano di ostacolarne il passaggio): sorge il dubbio (e la speranza…) che Tsukamoto abbia voluto proporre un nuovo spunto di riflessione, questo sì di una certa forza innovativa, circa un’uomo-macchina perfettamente integrato, che quindi l’alienazione/meccanizzazione abbia raggiunto l’apice massimo facendosi impercettibile. E che, in definitiva, chiunque potrebbe essere un uomo-macchina, ovvero potremmo veramente esserlo tutti…[CB]