Kazoku X (Household X)
Kazoku X (家族X, Household X). Regia e sceneggiatura: Yoshida Kōki; fotografia: Shida Takayuki; interpreti: Minami Kaho, Taguchi Tomorowo, Kaku Tomahirō, Tsutsui Mariko, Murakami Jun; durata: 90’; 61th Berlin International Film Festival
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I piccoli gesti di ogni giorno, i rituali della quotidianità, svelano la disperazione che cresce all’interno del microcosmo di una famiglia. Il regista insiste sui sintomi, piuttosto che sulla diagnosi e traccia l’inesorabile progressione del processo di alienazione, seguendo con sistematico rigore ogni gesto che i tre (praticamente) estranei compiono.
La madre che dispone le tovagliette sul tavolo con fanatica precisione, il padre che mette in ordine le ciabatte della moglie dopo averle intenzionalmente urtate e subito dopo esce di casa chiudendosi a chiave la porta alle spalle, il figlio che rientra ogni mattina a casa ed è evidente che i genitori nulla sappiano di come e dove passi le sue notti.
Yoshida Kōki è al suo secondo lungometraggio (il primo era stato nel 2008 Shorei X, altra storia di monotona quotidianità di un uomo e della madre schizofrenica) e con successo sembra arrivare al suo obiettivo: partendo dal caso specifico, allude al contesto più ampio, ad una società nella quale le interazioni fra i singoli sono segnate da un malessere profondo.
Il suo film è una macchina perfetta. Dialoghi rarefatti, quasi inesistenti, per lo più incentrati su questioni futili, come un erogatore d’acqua; una tensione che cresce e rende evidente la disperazione dei tre: la madre incarna la perfetta desperate housewife che passa gradualmente dal preparare colazioni e cene che nessuno apprezza a episodi di bulimia isterica, il padre perde la concentrazione al lavoro e, di fatto, finirà per essere isolato dai colleghi (e forse per vedere pregiudicato il suo stesso posto di lavoro), il figlio nell’unico momento in cui ha un contatto verbale con la madre un po’ più intenso del solito, lo fa seminascosto da una tenda e senza incontrare lo sguardo di lei. Cresce l’alienazione tra le quattro mura. Che sono quelle di una casa-prigione, di una casa-torturatrice della povera donna, una location accuratamente scelta dal regista, come da lui stesso dichiarato, per far sì che i tre personaggi vi potessero agire senza di fatto interagire fra di loro.
Le piante sul balcone curate e annaffiate con dedizione, ad un certo punto muoiono, dimenticate. Anche l’erogatore produce muffe metaforiche.
Il regista non ci svela se sia stato un trauma, o piuttosto un graduale, giornaliero, ma definitivo allontanamento ad annullare la comunicazione fra i tre. E proprio questo meccanismo, nel crescendo emotivo di ogni gesto/segno di cedimento che man mano incide la sensibilità di chi guarda, fa sì che l’identificazione sia sempre (drammaticamente) potente. Kazoku X rappresenta una qualsiasi famiglia, potrebbe essere la famiglia di ognuno di noi.
Un aspetto invece a mio avviso tipicamente giapponese è quello del social control, che emerge dal film: la famiglia vive in un tipico sobborgo da middle class di Tokyo, di casette ordinate e simili fra loro. A scadenze regolari la madre porta i rifiuti di casa, che dovrebbero essere accuratamente differenziati, nel luogo della raccolta. E qui a volte si sente in imbarazzo di fronte alla vicina (perfetta housewife o forse anche lei sotto sotto un filo desperate…) per la sua inadeguata separazione dei rifiuti. Intanto la vicina controlla, nota il figlio della donna che rientra a casa al mattino e fa domande alle quali la madre, goffamente vergognosa, non sa rispondere.
Un bel piano sequenza – organizzato in modo quasi teatrale, con persone che appaiono e scompaiono dall’inquadratura, uscendo di casa, entrando in auto, ad intervalli di spazio/tempo così regolari da sembrare quasi una danza – la accompagna ad un certo punto seguendola nelle stradine del quartiere, mentre torna con le borse della spesa e i rumori intorno a lei crescono fino ad un picco per poi tacere del tutto. La donna è oramai insensibile, a-comunicativa. Dopo aver distrutto oggetti in casa con furore isterico, esce e vaga per le strade. La ritroverà il marito, qualche ora dopo, schiantata sul tavolo di una caffetteria. L’ultima immagine che ci regala il regista raggruppa i tre personaggi insieme in un unico spazio (visivo): i genitori che tornano in auto ed il figlio, uscito anche lui a cercare la madre, in bicicletta. Si potrebbe forse ipotizzare che l’evento drammatico della fuga della donna possa aver determinato – o potrà determinare in futuro – cambiamenti in positivo nei rapporti fra i tre (dando speranza alla ripresa, in senso generale/sociale, di una comunicazione interrotta), ma i loro profili silenziosi, racchiusi nell’inquadratura-gabbia, non sembrano concedere molto spazio in tal senso. [CB – 61th Berlin International Film Festival – febbraio 2011]
Ho appena visto Kazoku X e mi ritrovo decisamente d’accordo con la recensione di Claudia. Il minimalismo radicale, con cui rappresenta l’alienazione quotidiana di questa famiglia, mi ha ricordato il Jeanne Dielman di Chantal Ackerman (uno dei ‘film della mia vita’). La desolazione del Capsule hotel è assoluta. La lunga carrellata a seguire il rientro della moglie coi suoi sacchetti della spesa – che Claudia cita – è davvero un momento di grande cinema. Come nei Dardenne, Yoshida sta sempre addosso ai suoi personaggi cogliendone ogni minima palpitazione (questa aderenza dello sguardo della macchina da presa ai corpi e ai volti dei personaggi, che le camere leggere permettono agevolmente, e davvero una degli aspetti più entusiasmanti del cinema contemporaneo). Più che un film sui guasti della società, mi è però sembrato un film sulla incapacità degli individui di dare, in qualche modo, un senso alla propria esistenza. Sulle conseguenze di quell’inermità che fa sì che si venga travolti dal grigiore di un quotidiano che si replica sempre uguale a se stesso, senza speranza alcuna. Che poi la società contemporanea – e il suo stupido immaginario – ci mettano del suo, è cosa ovvia. In una frase: ci insegnano a fare la raccolta differenziata ma chi ci spiega come si fa a vivere? Nessuno: dobbiamo impararlo da soli (e i tre protagonisti del film non sembrano ancora avercela fatta).
Grazie del commento e dell'integrazione. Si, è stato in assoluto il film, tra tutti quelli che ho visto quest'anno a Berlino, che più mi ha colpita. Ho trovato quasi ogni sequenza un gioiello di composizione e tu mi hai fatto tornare alla mente anche il segmento ambientato nel capsule hotel, è vero… Speriamo di non dover attendere troppo un suo nuovo film. Claudia