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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Heaven’s story

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Heaven’s story (Heaven’s Story). Regia: Zeze Takahisa; sceneggiatura: Satō Yūki; interpreti: Eguchi Noriko, Emoto Akira, Fukikoshi Mitsuru, Murakami Jun, Satō Kōichi;  durata: 278′ – prima: 2 ottobre 2010; 61th Berlin International Film Festival
Links: Sito ufficialeNicholas Vroman (Toronto J-Film Pow-Wow) – Berlinale-Catalogo
PIA: commenti: 3,5/5   all’uscita delle sale: 74/100
Punteggio ★★★
In un’intervista di qualche anno fa, Zeze Takahisa, uno dei cosiddetti “Quattro Re del Pink”, a proposito del proprio cinema – di genere erotico -, dichiarava: “Cerco di mostrare le relazioni (tra le persone), faccio film sull’amore”.
Viene da ripensare a questa affermazione (almeno alla prima parte, posto che Heaven’s Story non è un film di genere sentimentale, tanto meno erotico…) di fronte all’ultima mastodontica opera del regista: in quasi cinque ore di film, suddiviso in nove capitoli che coprono un arco temporale di nove anni, ciò che interessa il regista pare essere soprattutto (ancora) lo sviluppo delle relazioni: tra vittime di azioni violente e carnefici, tra vittime e vittime, ed anche tra gli umani sopravvissuti e i fantasmi dell’aldilà.
Il film, miglior film 2010 secondo Eiga Geijutsu, terzo per Kinema Junpō e fresco vincitore dei Premi FIPRESCI e NETPAC al 61° Festival di  Berlino, è una storia articolata di vendette che ripercorre il ciclo delle stagioni e coinvolge personaggi diversi: la giovane superstite di una famiglia massacrata da uno psicopatico, un uomo che giura vendetta per la morte della moglie e del figlio, un poliziotto divenuto killer per aiutare la famiglia di un altro uomo da lui stesso ucciso per legittima difesa, una musicista rock parzialmente sorda che riesce ad interrompere per qualche anno il ciclo della violenza, e altri ancora…
Le diverse storie del film, incastonate nella complicata struttura con cornici di teatro classico giapponese che ripercorrono un’antica fiaba di mostri ed esseri umani, fanno emergere molti temi: la vendetta, in primo luogo, unitamente allo stato di conflitto emotivo delle persone le cui vite sono state sconvolte dalla violenza, ma non solo. Anche il tema della morte intesa come perdita, della morte in antitesi alla nascita, del rapporto con l’aldilà (quest’ultimo ad esempio nell’incontro dei fantasmi della famiglia trucidata con l’unica superstite; o nei tanti riferimenti alla cicala che si libera della corazza e “rinasce”). E poi la memoria, nel capitolo che riguarda una donna malata di alzheimer (interpretata dalla nota cantante Yamasaki Hako) che costruisce bambole, la quale decide di adottare un ragazzo che ha ucciso una madre e il suo bambino; ed ancora il rapporto con una natura forte e potente, come nel capitolo sulla città fantasma in mezzo alle montagne. Il film è infine anche una riflessione sulla società giapponese contemporanea.
Forse troppo? Forse.
Ed infatti l’opera risente di un’intensità oscillante, a volte è veramente affascinante e travolgente, in altre il ritmo subisce l’accumulo sfrenato e convince meno.  
L’utilizzo delle cornici teatrali conferisce un senso tragico alla narrazione e, a suo modo, è come se tentasse di “mettere ordine” nel turbinio di storie ed intrecci; per contro riprese veloci e nervose restituiscono ansia al racconto. In questo denso alternarsi di vicende di (tanti) personaggi di cui il regista sembra decisamente infatuato (di tutti, nessuno escluso, non riuscendo a scegliere fra loro quali “illuminare” meglio a scapito di altri e, così facendo, creando un affollato olimpo di divinità e semidei…), molte le sequenze che non possono non colpire. Da una delle prime, gruppo di bambini che si tuffa da un pontile, con riprese da sotto la superficie dell’acqua, quasi ad invito, in preparazione delle quattro ore successive, ad “immergersi” nel flusso intenso delle immagini… a quella lunga della città fantasma immersa in un paesaggio di montagne innevate, luogo epico di vita e morte, palcoscenico per improbabili rese dei conti, costituito da corridoi senza fine nei quali appaiono i personaggi che sono anch’essi fantasmi di dolore, e da terrazzi di cemento sui quali gli uomini appaiono schiacciati sotto un cielo plumbeo, che sembra essere a sua volta metafora e riflesso di quel “paradiso/inferno” compresso nell’animo umano. Forse troppo, sì.
Si esce dal “viaggio” di Heaven’s Story affascinati e un po’ frastornati. [CB – 61th Berlin International Film Festival – febbraio 2011]
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