Seishun hakaba (Hot as Hell: The Deadbeat Match)
Seishun hakaba (青春墓場~明日と一緒に歩くのだ~, Hot as Hell: The Deadbeat Match). Regia e sceneggiatura: Okuda Yosuke; fotografia: Kobayashi Gaku: scenografia: Yoshinari Kojima; montaggio: Onodera Takuya; suono: Nemoto Asuka; interpreti: Itabashi Syunya, Katakura Waki, Okuda Yosuke, Tamura Kensaku, Iida Kaouru, Kaneyama Kumiko; produzione: Yoshinari Kojima; durata 75’; 2010; HDCam: Colore – Yubari Film Festival – 41th International Rotterdam Film Festival.
Punteggio ★★★1/2
Premiato allo Yubari Film Festival, da una giuria presieduta dal prestigioso cineasta hongkongese Johnnie To, e presentato poi nella sezione «Bright Future» del Festival di Rotterdam, Hot as Hell incrocia le vicende di due giovani (Ippei e Natsuko), che si incontrano casualmente alcuni anni dopo i tempi delle scuole superiori, a quelle di un gruppo di coetanei yakuza e spacciatori di eroina.
Il film è tanto un aspro ritratto del mondo della tossicodipendenza (il destino di Natsuko non può lasciare indifferenti), quanto un fuoco di fila di improbabili, ma avvincenti, incastri narrativi (si veda la borsa contenente dei soldi, e una pistola, che finisce dalle mani del gangster Makio a quelle di Ippei e poi di nuovo al primo, un po’ come in un film di Sabu), dove l’ironia (a partire dall’uso drammaticamente contrappuntistico della musica) la fa da padrone. Il film è dedicato a Quentin Tarantino ed è chiaramente un esercizio di stile sulla base delle strategie formali del regista di Pulp Fiction. Su tutte, si veda la sequenza in cui il giovane Ippei è caricato dai malviventi su un furgone e riempito di botte, mentre i due conducenti non fanno altro che parlare dei loro guai col mal di denti. Se forse può aver gia stancato il fenomeno del tarantinismo – non i film di Tarantino, ma quelli dei suoi imitatori – Hot as Hell conferma ancora una volta come quella dell’imitazione sia un’arte in cui i giapponesi primeggiano. Non ci spingiamo a dire che Hot as Hell sia meglio di un film di Tarantino, ma è certamente un film che prendendo esplicitamente a prestito modelli altrui, produce degli ottimi risultati. E, in qualche occasione, efficaci quanto quelli dell’originale (oltre ai passaggi già citati c’è anche una vera e propria lezione sul codice d’onore della yakuza, che non si rivela altro che una pretestuosa messa in scena). Forse rispetto a Tarantino, e non è una cosa così trascurabile, Okuda si affida a personaggi più credibili, che si radicano maggiormente nella realtà di quanto invece non accada per i protagonisti del regista americano. Sia la coppia che tenta, senza riuscirci, di dar vita a un intreccio sentimentale, sia gli yakuza principali (anche se non tanto il ciccione Makio, interpretato dallo stesso regista) non sono semplicemente delle figurine da fumetto, ma personaggi che portano dentro di sé contraddizioni che sono parte della realtà in cui loro e noi viviamo. [DT-Genji]
Interessante questo "movimento ondulatorio" che parte dal cinema orientale (da cui Tarantino ha tratto a piene mani), per passare al filtro della creatività del regista americano e tornare, in un certo senso, al cinema orientale con qualcuno che trae a sua volta dai modi e dalle strategie "tarantinesche"…
Claudia