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SONATINE CLASSICS

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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Kanikōsen (蟹工船, The Crab Cannery Ship)

*** Flashback ***
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Kanikōsen (蟹工船, The Crab Cannery Ship). Regia e sceneggiatura: Sabu (Tanaka Hiroyuki); soggetto: dal romanzo di Kobayashi Takiji;  fotografia: Komatsu Takashi; scenografia: Isomi Toshihiro, Mitsumatsu Keiko; montaggio: Bando Naoya; musica: Mori Takashi; sonoro: Ishigai Hiroshi; interpreti: Matsuda Ryūhei, Nishijima Hidetoshi, Sugata Shun, Kōra Kengo; produzione: Dub, IMJ Entertainment, Smoke; durata: 109’; prima: 4 luglio 2009.
Links: Sito ufficiale  – Trailer –  M. Downing Roberts (Midnight Eye) – Christopher Bourne (Meniscus)
PIA: Commenti: 2,5/5   All’uscita delle sale: 51/100
Punteggio ★★1/2

L’ormai penultimo film di Sabu (imminente l’uscita di Usagi Drop) rappresenta una sorta di cinema di rottura, rispetto a tutto quel che avete conosciuto e amato di questo regista (Postman Blues, Monday, Drive, Unlucky Monkey). La circolarità tipica della sua narrazione, ripetizione ciclica di determinati eventi negativi, le conseguenti fughe continue, e gli assurdi paradossi, hanno lasciato il posto ad un soggetto che trae spunto da un famoso romanzo di protesta e rivolta sociale.


Il romanzo di Kobayashi Takiji è del 1929 (trad. it.di Faliero Salis: Il peschereggio dei granchi, Tirrenia-Stampatori, 2006) ed ha visto una repentina ripubblicazione, nel 2009, vista l’uscita del film ad esso ispirato. Per assurdo, visto che qui di cinema si parla, è il romanzo ad aver conosciuto negli ultimi due anni un boom ed un successo, difficilmente immaginabili durante la sua prima pubblicazione negli anni Venti.

La storia narra delle quasi disumane condizioni di vita di alcuni operai (anche se siamo su di una nave, non si può che riconoscere nei protagonisti il più basso gradino di livello sociale) a bordo di una grossa nave imperiale che ha il compito di pescare granchi ed inscatolarne la polpa. La loro condizione pressoché di schiavi, viene mostrata in modo affascinante a primo acchito (bella la fotografia, belle le inquadrature) e narrata con molteplici riflessioni sulla vita e sulla sfortuna delle loro rispettive vite, la perdita di una condizione di vita normale, l’abbandono delle famiglie, la consapevolezza di non poter pretendere di più da una società così classista e opprimente ed il desiderio di fuga da tutto ciò.
E’ proprio questo desiderio di evasione a regalare gli spunti principali per lo svolgimento della narrazione e del concatenarsi degli eventi: tentativi di trovare una soluzione a questa vita di stenti e sacrifici da parte degli operai. Ma, visto il luogo in cui si svolge la storia, (non si fugge facilmente da una nave in mezzo all’oceano) a prender corpo è infine un folle desiderio di fuga, fuga dalla vita.
Luogo prescelto per un ideale nuovo inizio è la casa della famiglia Kimura: un idilliaco quadretto esageratamente gioioso e forzato, dove su di un prato verde smeraldo, circondato da stridenti colori provenienti da fiori e piante, i vari operai sognano di giocare a palla.  
Con l’introduzione del tema del suicidio, assistiamo alla bellissima sequenza del tentativo di impiccagione di massa, nel quale i corpi appesi ai cappi dondolano all’unisono nella cambusa, in preda allo sciabordare del movimento ondoso. Questo è probabilmente il momento più alto del film, dove il valore visivo dei corpi appesi ed inerti che si muovono come una sola entità in balia dei movimenti della nave (e proprio grazie ad essi trovano la salvezza dallo strangolamento) contiene praticamente tutta l’essenza del film.
A dire il vero c’è anche spazio per un tentativo di evasione fisica vera e propria: un tuffo in mare di due protagonisti e l’approdo su di una nave russa. A bordo di questa imbarcazione rivale, però, (anche i sovietici praticano pesca di granchi d’altura e rischiano, a detta del folle ed impassibile comandate/schiavista nipponico, di mettere a repentaglio la gloriosa reputazione dell’impero giapponese) i due personaggi sembrano giungere ad una sorta di illuminazione etica che li porterà lontani da desideri di fuga, per far ritorno invece nel luogo di origine delle loro sofferenze: la nave. Echi di felliniana memoria possono riscontrarsi in questi momenti quasi onirici in mezzo alle danze gioiose, spensierate e quasi goffe dell’equipaggio europeo. Un’atmosfera lontana anni luce da quella che si respira sul vascello del Sol Levante.
Il protagonista di questa storia, interpretato dal bravo e popolare Matsuda Ryūhei  (Gohatto, Nightmare Detective, Big Bang Love Juvenile, Izo) ed il suo compagno trovano quindi una calda e festosa accoglienza, oltre che la possibilità di un approfondito scambio di vedute filosofico/etiche con un mozzo cinese il quale, con il suo poco chiaro linguaggio infarcito di inflessioni sino russe, illumina sì la mente di Shinjo, ma di un fervore rivoluzionario, non certo di un desiderio di fuga. La decisione del ritorno alla nave giapponese darà origine al triste ma necessario epilogo, bagnato di sangue come ogni rivoluzione che si rispetti, pare debba essere.
Kanikōsen è cinema coraggioso, che sfodera un vero attacco al simbolo della macchina capitalista.
Stranamente, questo coraggio, è l’unico aspetto da cui possiamo provare a riconoscere i tratti del cinema di Sabu. Troppo spesso, infatti, i simbolismi visivi, sociali e politici prendono il sopravvento, rallentando di per sé il ritmo della narrazione. Questa scelta è, tra l’altro, caratterizzata dall’ausilio di espedienti e soluzioni già utilizzate: impossibile non individuare riferimenti a Metropolis di Lang per il fervore di alcune scene di massa, oppure alcuni rimandi al cinema di Tsukamoto Shinya, riguardo al rapporto uomo – oppressione – macchina, ben sottolineati da inquadrature e giochi di luce comunque molto azzeccati, oltre che i già citati momenti felliniani.
Con Kanikōsen Sabu si nasconde dietro al peso sociale della morale di questa storia, ma sceglie di farlo rappresentando il tutto in modo meno personale del solito, anche se a tratti affascinante. Gli spunti sono molto interessanti, la carne al fuoco è succulenta, ma manca il collante del carattere dell’autore ad impregnare il lavoro di maggior originalità. [Fabio “Ichi” Rainelli]
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