Mujō sobyō (Sketches of Mujo)
Mujō sobyō (無常素描, Sketches of Mujo). Regia, soggetto: Ōmiya Kōichi; fotografia: Yamauchi Daidō; montaggio: Tooyama Shinji; suono: Ishigaki Satoshi; durata: 75′; data: 18 giugno 2011.
Era inevitabile che una tragedia di proporzioni apocalittiche come il triplice disastro dell’11 marzo giapponese innestasse la voglia di filmare e indagare. Come successe dopo il secondo conflitto mondiale, sono molti i documentari usciti dall’arcipelago giapponese in questi sette mesi che ci separano dal terremoto e che in forme e modi diversi cercano di raccontare, presentare e rappresentare l’immane catastrofe che ha colpito il nord del paese.
Lo Yamagata Documentary International Film Festival, la manifestazione di questo genere più importante in Asia e fondata dal grande documentarista Ogawa Shinsuke nel 1989, ha dedicato quest’anno un’ampia parte del suo programma proprio ai lavori riferiti alla tragedia, anche considerando il fatto che geograficamente Yamagata si trova a poca distanza dai luoghi colpiti da terremoto e tsunami.
Il primo documentario in ordine di tempo uscito nelle sale giapponesi – esattamente dopo 100 giorni lo si poteva vedere in un cinema di Tokyo – è stato quello qui recensito. Filmato nei mesi immediatamente successivi l’11 marzo da Ōmiya Kōichi, regista originario della prefettura di Iwate, una delle zone più colpite dalla tragedia (i suoi genitori vivono ancora lì), è stato volutamente girato e completato in soli 50 giorni, in modo da registrare il tutto nel modo più diretto possibile, come una testimonianza a caldo degli eventi.
Il titolo ci dice già molto dell’approccio usato da Ōmiya. Mujō, infatti, in giapponese significa “impermanenza, transitorietà” ed è un concetto fondamentale nella dottrina buddista che informa molta parte della cultura del Giappone, un paese che nel corso della sua storia è stato colpito innumerevoli volte da catastrofi sia naturali che causate dall’uomo.
Come molti altri documentari girati sui luoghi del disastro, anche in questo è prevalente l’uso di carrellate laterali girate direttamente da un’autovettura, spesso commentate dal regista in diretta, espressioni di sorpresa e incredulità, quasi senza alcuna parola ma solo con i rumori dell’ambiente a fare da sottofondo. Bastano le immagini per mostrarci le carcasse delle macchine, le abitazioni divelte, le poche persone girovagare quasi senza meta, insomma la devastazione ed il senso di perdita. Ma ciò che colpisce e che differenzia il film dalle immagini viste nelle tv giapponesi (e non), è il senso di ampiezza delle zone colpite che riesce a trasmetterci. Queste carrellate laterali che continuano ininterrotte per minuti e minuti, traslano il tempo in spazio e ci danno così il senso delle dimensioni del disastro. Ci sono naturalmente molte interviste con gli abitanti delle zone, indecisi sul loro futuro, e dalle quali emerge che l’ amore verso il mare, in queste zone davvero portatore di vita e sostentamento, si è trasformato inevitabilmente in paura, almeno in alcuni casi. Ma il pregio maggiore di questo documentario, oltre alla già citata immediatezza con cui riesce a registrare le immagini del post-tsunami, risiede nell’ottimo lavoro fatto con il sonoro. Le immagini delle zone colpite sono infatte intervallate dalle parole di un bonzo/scrittore buddista che riflette sulla transitorietà della vita ed il cui salmodiante canto con il suono della campana del suo tempio, e veniamo qui al punto, accompagnano le riprese della devastazione. Questo binomio suono-immagini, soprattutto quando si tratta di quello caldo, avvolgente e quasi mitigante della campana, riesce a creare proprio quell’elegiaco senso di impermanenza e transitorietà che è il filo conduttore di tutta l’opera. [Matteo Boscarol]
Grazie per questa segnalazione. Cercherò assolutamente di recuperarlo… ora si parla solo di nucleare ma la tragedia più immediata è stata lo spaventoso tsunami e la sua devastazione. ciao, c
E' anche interessante il libro di Pio D'Emilia, "Lo tsunami nucleare", Edizioni Il Manifesto, 2011.