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Kiseki (I Wish)

Re-visioni
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Kiseki (奇跡, I Wish). Regia, soggetto, sceneggiatura: Koreeda Hirokazu; interpreti: Odagiri Joe, Abe Hiroshi, Kiki Kirin, Harada Yoshio, Nagasawa Masami, Natsukawa Yui, Otsuka Nene, Maeda Kōki, Maeda Oshirō; durata: 128′; uscita: 11 giugno 2011
Link: Sito ufficialeMark Schilling (Japan Times) – Nicholas Vroman (a page of madness)
PIA: Commenti: 4/5   All’uscita delle sale:76/100
Recensione di Matteo Boscarol
Punteggio ★★★★   
Le inquadrature di apertura di Kiseki, ultimo film di Koreeda Hirokazu, sono dedicate ad un vulcano. Si tratta del Sakurajima, la cui eruzione viene evocata, “desiderata” fortemente da uno dei giovani protagonisti del film durante lo svolgersi della vicenda, come evento risolutivo di una situazione sgradita. Un inizio che non può non far pensare, a posteriori, alla catastrofe dello scorso marzo e che getta un’ombra di inquietudine (ma anche di speranza, lo si vedrà) sull’opera.
Kiseki, vincitore del premio della Giuria per la miglior sceneggiatura all’ultimo Festival di San Sebastian, è, per cominciare, una storia di treni e bambini.
Koreeda torna ai temi che gli sono più cari – gli affreschi familiari, il rapporto tra adulti e bambini, il tempo che passa, la memoria – e racconta la storia di due fratelli, Koichi (interpretato da Maeda Koki di 12 anni) e Ryunosuke (Maeda Ohshiro, 10 anni), costretti a vivere separati a causa del divorzio dei genitori. Koichi vive con la madre, e i familiari di lei, a Kagoshima, mentre il fratello è rimasto con il padre a Fukuoka. Un giorno Koichi viene a sapere che di lì a poco verrà completato il collegamento ferroviario tra le due città con i velocissimi treni shinkansen e si convince che, nel momento in cui i treni provenienti dalle due direzioni opposte si incroceranno, accadrà il “miracolo” che farà avverare il suo sogno di riunire nuovamente la famiglia. Si organizzano così nelle due città, capeggiati dai due fratelli, due gruppi di “portatori di desideri”, vale a dire giovani amici che come Koichi e Ryunosuke hanno un desiderio che vorrebbero vedere avverato. Il giorno prestabilito i bambini partono e riescono ad arrivare, dopo qualche traversia e anche fortunosi incontri, al luogo del “miracolo”. Difficile dire se il desiderio gridato al vento da ciascuno di loro si avvererà: senza dubbio per Koichi quello sarà il momento di intuire la consapevolezza insita nella crescita e affrontare la malinconica presa di distanza dai sogni per entrare nel mondo della realtà.
Il film, il cui titolo in giapponese significa “miracolo” e che è stato tradotto in “I wish” per evitare letture erroneamente religiose, riguarda innanzitutto, appunto, la forza magica, evocativa del desiderare, piuttosto che non il risultato in sé. I bambini desiderano fortemente, chi di far rivivere il proprio cane morto, chi una carriera da ballerina, chi, come i due fratellini, la ricongiunzione della famiglia. La forza del desiderio dei bambini si tinge quasi di sacro nel film di Koreeda e viene infatti rispettata e sostenuta dai componenti di quell’altro “mondo” che è in grado di riconoscerla: quello degli anziani (il nonno dei due si farà parte attiva per assicurare che i bambini riescano a partire). Kiseki è la rappresentazione di mondi che si confrontano, ma che agiscono, si muovono e  provano emozioni in modo differente: i cosiddetti adulti – la madre e il padre dei due fratelli per esempio – vengono rappresentati allo sbando, feriti da desideri ormai frustrati e incapaci di reagire in modo costruttivo. La madre di Koichi e Ryunosuke, in una bella sequenza, viene ripresa appoggiata ad un muro, con un’espressione sconsolata e le luci sfocate e baluginanti della città di notte d’attorno, a sottolineare il suo disagio (ancora il regista, come in altri suoi precedenti film, ad esempio Maboroshi, utilizza l’ambiente circostante per definire lo stato d’animo dei suoi personaggi). I bambini sono, al contrario, lucidi e determinati. Si assumono responsabilità. Questo rapporto adulti/bambini è ben rappresentato da una sequenza nella quale il piccolo Ryunosuke è deciso a parlare con il padre: lo aspetta al  rientro a casa e quando infine questi arriva il bambino si siede su un tavolino, mentre il genitore gli è davanti, accovacciato in terra, quindi più in basso di lui. L’inquadratura sulla quale il regista insiste mostra la figura di un bambino che “incombe” su quella dell’adulto.
Il film è senza dubbio un bellissimo affresco di famiglia, che in diversi passaggi mi ha ricordato Aruitemo aruitemo, (tra l’altro molti degli attori sono gli stessi, come la nonna interpretata da Kiki Kirin, e poi Abe Hiroshi, Harada Yoshio) come nei momenti di dialoghi intimi e serrati nella quotidianità delle faccende domestiche, in cucina per esempio, tra madre e figlia.
Koreeda ancora una volta dimostra estrema sensibilità nel riprendere il mondo dei piccoli: il pensiero in primo luogo va al precedente Daremo shiranai, storia di quattro fratelli abbandonati a se stessi, ma anche  ai bambini in Aruitemo aruitemo, o in Maboroshi.Lo fa con uno stile che in certi momenti è quasi documentaristico, per sua stessa ammissione senza forzare la recitazione con un copione rigido, ma riprendendo l’interazione spontanea. Il risultato è un’opera che si nutre della forza visiva dell’energia infantile, della vitalità unita alla sorpresa di fronte alle cose del mondo.
I due fratelli Maeda, che nella vita sono un duo manzai, sono molto bravi nell’interpretare il ruolo di rispettivi leader della propria “armata brancaleone”.
Verso il finale del film, i bambini, nel loro viaggio verso il luogo del miracolo, si ritrovano ad essere ospitati da una coppia di anziani. L’atmosfera che si crea nella serata insieme, le memorie della coppia, dei propri figli e nipoti, lontani, rimanda fortemente alla nostalgia di tanti ritratti di famiglia di Ozu.
Anche i treni sono un elemento insistente nella filmografia di Koreeda: in Maboroshiil marito della protagonista muore travolto da un treno e spesso, nello stesso film, le riprese includono treni che passano, dando all’immagine sullo schermo quell’instabilità che presagisce un che di nefasto. In Kiseki i treni tornano a segnare momenti di magia e surrealtà (in una scena Koichi rimane a bocca aperta nel momento in cui, quasi a conferma delle proprie convinzioni, gli sembra di veder “sparire” una donna a seguito dell’incrociarsi di due treni), che sono poi quegli stessi momenti che la vita – e il cinema – a volte regalano.
Il vulcano disegnato da Koichi alla fine erutta solo sulla carta, e, subito dopo, il bambino si rende conto che il proprio desiderio non sarebbe potuto divenire realtà. La sua famiglia forse non è fatta per ricongiungersi. E’ il momento della crescita, pervaso di nostalgia allo stato puro. La catastrofe evocata si trasforma allora, mi sembra, da evento devastante a segno di speranza: la si può superare per entrare in una nuova fase dell’esistenza.[Claudia Bertolè]
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3 commenti su “Kiseki (I Wish)

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