Chanto tsutaeru (Be Sure To Share)
Regia, soggetto e sceneggiatura: Sono Sion. Fotografia: Ueno Shōgo. Luci: Torigoe Masao. Scenografia: Ōba Hayato, Ōba Yūto. Montaggio: Itō Jun’ichi. Musica: Harada Tomohide. Interpreti e personaggi: Akira (Kita Shirō, il figlio), Okuda Eiji (Kita Tetsuji, il padre), Itō Ayumi (Nakagawa Yoko, la fidanzata), Takahashi Keiko (Kita Izumi, la madre), Takaoka Sōsuke (Tamura Keita, l’amico), Ayata Toshiki (il vecchio pescatore dello stagno), Denden (Tanaka, l’insegnante e collega). Produzione: Umemura Yasushi per GAGA. Durata: 109’. Uscita nelle sale giapponesi: 22 agosto 2009.
PIA: Commenti: 3/5 All’uscita delle sale: 64/100
Punteggio ★★★1/2
Quando il padre è ricoverato in ospedale per un cancro, il giovane Shirō si accorge che i suoi sentimenti verso il genitore sono mutati e cerca con affetto di ricostruire la loro relazione. Inizia così a ricordare gli anni del liceo, quando il padre era anche il suo insegnante di educazione fisica e allenatore di calcio, severo e inflessibile più che mai. La situazione avrà una svolta imprevista quando anche Shirō scoprirà di essere malato.
Girato quasi completamente nelle zone natie di Sono, le cittadine di Toyokawa e Toyohashi, agli estremi della prefettura di Aichi, Chanto tsutaeru è uno dei lavori più autobiografici del regista, che mette in scena i sentimenti provati quando è scomparso suo padre. Gli aspetti di interesse del film sono molteplici. Innanzitutto la scelta di basare la storia su personaggi e situazioni “normali”, lontane da quelle famiglie disfunzionali e dai quei personaggi devianti o deviati, ai margini della società, che spesso abitano i lavori di Sono. Inoltre, grazie alla scelta delle location, alla musica quasi impercettibile della chitarra di Harada Tomohide e, soprattutto, allo spettro dei colori e al gioco delle luci, siano esse naturali o artificiali, il film è fin dalle prime battute immerso in un’atmosfera crepuscolare di «dolce fine». Un esempio lo abbiamo quando un’immagine del sole al tramonto, rosso come una palla di fuoco, si riverbera nelle inquadrature della scena che segue all’interno dell’ospedale, dove è ricoverato il padre di Shirō. Una scena che, proprio grazie all’uso del colore e agli arpeggi quasi subliminali della chitarra, riesce a creare quell’atmosfera di calmo tramonto e di dolce ma ineluttabile scorrere del tempo che caratterizza la quasi totalità del film. Un esito a cui concorrono anche i frequenti montaggi di incroci, stradine e case delle cittadine di Toyokawa e Toyohashi, per lo più deserti, che offrono una visione piuttosto veritiera della provincia giapponese. È questo un ulteriore aspetto interessante, intanto perché riporta Sono a certe sue opere di qualche anno prima, così «densamente vuote» come Keiko desu kedo (I Am Keiko, 1997) o Heya (The Room, 1992); poi, perché i colori caldi e pastosi, con i prati che quasi scintillano d’oro, sono la vera struttura dell’opera, la tela perfetta su cui i vari personaggi, interpretati con bravura da tutto il cast, si inseriscono in un secondo momento dal punto di vista della significazione cinematografica. Ne è un ottimo esempio la scena della pesca del padre e del suo amico Tanaka, che si svolge nelle vicinanze di un lago, uno spazio narrativamente centrale per il significato di tutto il film, dove la fotografia di Ueno Shōgo riesce a creare un perfetto equilibrio tra l’aspetto agreste e bucolico della zona e il fatto che l’intera sequenza sia frutto del ricordo di qualcuno. Colori caldi e avvolgenti che si legano ad altre parti del film e trovano, ad esempio, un corrispettivo e una risonanza con gli interni dell’abitazione della famiglia Kita, in particolare con la stanza dove sono custoditi tutti i trofei del padre e le sue canne da pesca. È questo un altro luogo topico del film, che rappresenta per Shirō la stanza della memoria del padre; proprio qui, infatti, il ragazzo ricorda il periodo delle scuole superiori, con il padre severissimo insegnante di educazione fisica. In questo e in altri flashback, che sono una costante del cinema di Sono, i colori diventano più freddi, l’uso della camera a mano si fa preponderante, così come la frequenza dei primi piani. Si tratta di un’altra conferma della creatività e della versatilità del regista, anche quando il materiale narrativo, come in questo caso, non è dei più originali. Del resto, Sono rompe a più riprese le dinamiche del dramma lacrimevole, pur rimanendone all’interno. Quando, all’incirca a un terzo del film, il dottore dell’ospedale rivela a Shirō che ha un cancro in stato avanzato, ancora più grave di quello del padre, il cineasta intensifica l’uso del voice over – già ampiamente presente in Keiko desu kedo e Noriko no shokutaku (Noriko’s Dinner Table, 2007) – dei flashback dentro i flashback, delle piste narrative interrotte e poi riprese, anche a venti e più minuti di distanza, di scene che sembrano ripetersi, o paiono osservate da un punto di vista diverso, per poi rivelarsi però effettivamente altre. Anche in questo film apparentemente “normale”, o forse proprio perché per certi aspetti “normale”, emerge la tendenza di Sono a complicare la visione allo spettatore, a mantenerlo sempre vigile e attento, come a voler liquefare la prevedibilità della narrazione e delle immagini stesse.
L’uso espressivo dei colori ritorna con forza nelle scene madri del film. Così, per esempio, la scena del funerale del padre, che sanziona definitivamente la sua assenza, è aperta da un montaggio di zone deserte della cittadina di Toyokawa, che ora ci sembrano più desolate e solitarie che mai. L’estro pittorico di Sono non si ferma però qui. Quando tutti i partecipanti del funerale scendono dalle loro auto, le immagini sono strutturate come un acquerello, il cielo è virato al giallo con le montagne all’orizzonte, e la macchina verde mare appare come una macchia solitaria. Non si tratta di una scelta fine a se stessa; essa contribuisce, infatti, a determinare quell’atmosfera elegiaca che trova il suo culmine nel momento in cui il figlio, per ottemperare in qualche modo alla promessa fatta al padre, ne trasporta il corpo senza vita sino al lago. Quando arrivano anche tutti gli altri partecipanti al funerale, e la madre e la fidanzata si siedono sulla panchina vicino a padre e figlio, la musica, fino a questo punto sommessa e di sottofondo, aumenta di volume, sfociando e raggiungendo il culmine in un’inquadratura del laghetto infuocato dal tramonto. È questo il cuore del film, almeno il momento in cui emerge il suo significato principale: non si deve, con le persone che si amano, procrastinare nel tempo ciò che si può fare subito, perché potrebbe non essercene più l’occasione. Importante, a questo riguardo, il ruolo simbolico assunto da quel guscio di cicala che il padre teneva fra le mani nel momento in cui, colto da un malore, era stato ricoverato in ospedale, e che più volte ritorna nel film. Esso è segno della coscienza della caducità, dell’ineluttabilità della morte e della fugacità dell’esistenza. Le cicale, infatti, vivono per un breve periodo e in Giappone, soprattutto in estate, sono onnipresenti, con il loro frinire assordante, sia in campagna sia nelle città. Ascoltare il frinire delle cicale è, per i giapponesi, ascoltare il suono dell’estate, e questa stagione, con la sua luce e la sua calura insopportabile, è il periodo in cui, secondo la tradizione, ritornano i morti durante la festa dell’Obon. [Matteo Boscarol]
Eccomi, come promesso. Allora, è giusto precisare che purtroppo ho visto il film troppo tempo fa. Purtroppo perché mi sarebbe piaciuto intavolare uno scambio costruttivo, dato che come ti ho già scritto questo film mi ha convinto molto poco quando tu, al contrario, ne scrivi in termini così positivi. Personalmente io ho trovato debole proprio quella fotografia e quelle luci che per te rappresentano un punto di forza. Mi son sembrate troppo poco filmiche tanto da trasmettere la sensazione di star vedendo più un filmino che una pellicola vera e propria. Non so se e quanto sia voluto, tuttavia la sensazione resta. Ricordo vagamente che non mi convinsero neanche i dialoghi. Vien da sé che essendo, dovendo essere, la sceneggiatura non particolarmente originale, considerando la storia raccontata, senza quegli strumenti che riempiono appunto la storia a livello emotivo (dialoghi, musica, regia e fotografia, appunto) la pellicola risulta debole. Tuttavia è al solito dell'aspetto emotivo che si sta parlando, che proprio in quanto tale è estremamente soggettivo.
Al netto di queste personali riflessioni, doverosi i complimenti per una recensione scorrevole, ben scritta e competente (non solo relativamente al regista).
Ti ringrazio dei commenti, anche se devo precisare che l'autore della recensione è Matteo Boscarol. Peraltro, condivido le sue osservazioni. Non so dove tu risieda ma se vuoi vedere o rivedere questo e altri film di Sono, al prossimo Torino Film Festival ci sarà la rassegna quasi completa dei suoi film.
Ringrazio per i complimenti e accolgo con interesse il tuo punto di vista sulle luci e sui dialoghi, potresti aver anche ragione…..
ne approfitto per fare una piccola digressione sul come concepisco io una lettura/recensione di un film:
quando scrivo di un opera mi piace evidenziarne soprattutto le parti positive, cioè ciò che mi ha colpito di più del film, non scrivo quasi mai di film che non mi sono piaciuti o, meglio, che non aggiungono niente di nuovo a quello che va per la maggiore (in questo caso in Giappone), lo so è una mia scelta/pecca, ma questo è.
Dopodichè, se l'opera lo consente, ciò che mi piace di più fare è analizzare alcuni elementi presenti nel film, al di là della riuscita dello stesso e soprattutto al di là del volere del regista, per metterli in relazione con il milieu storico/culturale/artistico in cui l'opera è scaturita.
I punteggi ci sono perchè devono esserci ma per me hanno la consistenza di una stagione, cioè potrebbero cambiare da un giorno all'altro…. Ma va bene così altrimenti ci si prende troppo sul serio….
MatteoB
@Franco
Eh, non proprio vicino: Bari 😉
@Matteo
Non sei la prima persona ultimamente che assume questa posizione, ossia quella di non recensire film che non meritano. Io non sarei tanto d'accordo perché do un ruolo fondamentale anche a quel cinema meno riuscito, per una serie di motivi sui quali non starò qui a dilungarmi. Sottoscrivo pienamente, invece, quel "metterli in relazione con il milieu storico/culturale/artistico in cui l'opera è scaturita".
Spero di ritrovarti su questo blog, o sul tuo o da qualche parte, insomma 😉
Elio.
Elio, effettivamente non sei proprio comodo per il Torino Film Festival …
Devo dire che a mia volta ho una posizione un po' diversa da Matteo su cosa e come recensire (il tutto ovviamente nella più piena libertà, armonia e complementarietà). A me infatti interessa guardare e recensire un po' di tutto, nel senso che mi interessa capire la cultura e la società del paese più che non soltanto le prelibatezze tecnico-cinematografiche.
In secondo luogo, ci tengo particolarmente a parlar male, se occorre, di registi e attori incapaci che si prendono il nostro tempo e il denaro degli spettatori in sala o degli acquirenti dei dvd con lavori banali o squallidi.
PS. Elio, trovo che il nome del tuo blog sia bellissimo.
@Franco
Analizzare un contesto socio-culturale, peraltro, rende un'opera nata in quel contesto necessariamente più comprensibile. È una cosa da cui non si può prescindere, quindi mi trovi d'accordo sul primo punto. Ma ancor di più sul secondo. In particolare, guardando ed analizzando nel blog anche serie tv, questa cosa mi sta ancor più a cuore, perché fornisce un ritratto interessante, seppur negativo, di ciò che la gente vuole vedere, di ciò che la gente pretende (poco) e sugli standard su cui molti autori si sentono di sonnecchiare. È quella che io chiamo "cultura-della-merda", scusa il francesismo, assai importante se si vuol analizzare e capire l'attuale contesto culturale. (E poi si, ci sono anche le ragioni da te elencate ;))
P.s. Grazie, Franco. Spero non sia l'unico modo per attirare gente.
@Elio, Sono d'accordo con te quando dici di porre attenzione a ciò che viene prodotto per la televisione (finchè rimarrà un medium nazional popolare) riesce a dare l'idea dell'epoca, degli interessi della massa, di tendenze e del modo (anche spregiudicato) con cui i più illuminati riescono a piegare il mezzo. Per questi motivi @Franco mi trovo in sintonia con te quando scrivi "A me infatti interessa guardare e recensire un po' di tutto, nel senso che mi interessa capire la cultura e la società del paese più che non soltanto le prelibatezze tecnico-cinematografiche."
La differenza è che quando vedo una cosa che a me non piace, tendo a lasciar passare
@Elio, sì il francesismo "cultura della merda" rende bene la tendenza imperante (non solo nel cinema, peraltro …).
@Matteo
Forse ho inteso male quel "finché rimarra un medium nazional popolare". Comunque, nel caso contrario, mi prmetto di consigliarti, se non l'hai già fatto, di approfondire lo strumento "serie tv". Se è vero che propone un sacco di robaccia, è vero anche che è riuscita negli ultimi anni ad elevare lo strumento di cui sopra fino a creare attraverso lo stesso prodotti validissimi che non hanno nulla da invidiare ai capolavori cinematografici. Prodotti come OZ, Six Feet Under, Battlestar Galactica e The Shield sono davvero spettacolari, a mio avviso. In termini assoluti, non relativi.
Pur non guardando programmi televisivi occidentali, con te. In effetti le "serie tv" giapponesi sono spesso fatte in maniera molto professionale e dal punto di vista sociologico sono interessanti.
@Franco
Spesso ho cercato prodotti seriali orientali, ma senza troppa fortuna. Mi daresti qualche titolo, così do un'occhiata, nel caso?
Hai una email?
Certo: ks7997@gmail.com. Grazie mille.