Kyōfu (The Sylvian Experiments)
Kyōfu (恐怖, The Sylvian Experiments). Regia e sceneggiatura: Takahashi Hiroshi. Make-up ed effetti speciali: Trucco: Hyakutake Tomo. Interpreti: Fuji Mina, Nakamura Yuri, Katahira Nagisa, Chōsokabe Yōko, Kusakabe Sō, Yoshino Kimika. Produttore: Ichise Takashige. Durata: 94′. Uscita nelle sale giapponesi: 10 luglio 2010.
PIA: Commenti: 2/5 All’uscita delle sale: 38/100
Punteggio ★★1/2
Takahashi Hiroshi è un nome noto nel panorama contemporaneo del cinema nipponico del fantastico e dell’orrore. Autore dei principali lavori di Nakata Hideo e collaboratore occasionale di Tsuruta Norio, Takahashi ha contribuito in maniera decisiva alla definizione della principali tematiche e icone che sono confluite nella rappresentazione del moderno J-horror dalla fine degli anni novanta ad oggi. Ponendosi ora dietro la macchina da presa, il regista-sceneggiatore dirige il sesto ed ultimo capitolo della serie J-horror Theater ideata dal celebre produttore Ichise Takashige nel 2004, ed alla quale hanno partecipato, oltre ai nomi già citati, Shimizu Takashi e Kurosawa Kiyoshi. Con The Sylvian Experiments, Ichise e Takahashi, che insieme a Nakata avevano firmato il successo del seminale Ringu(1998), suggellano un simbolico ritorno alle origini, realizzando un’opera che affronta nuove idee senza abbandonare completamente i dettami del genere. Malgrado le premesse favorevoli e il calibro delle personalità coinvolte, il risultato finale sembra però disattendere le aspettative.
I coniugi Hattori sono una coppia di dottori che hanno una predilezione per le sperimentazioni neurochirurgiche sulla corteccia cerebrale. Una sera, mentre guardano un vecchio filmino che mostra una serie di test eseguiti su cavie umane, assistono al manifestarsi improvviso di un’abbagliante fonte luminosa. Incuriosite dal frastuono, le piccole Kaori e Miyuki sopraggiungono improvvisamente, e nonostante i vani tentativi della madre Etsuko di scacciarle, le bimbe rimangono rapite dalla visione. Diciassette anni dopo, durante i corsi universitari di medicina, Miyuki (Nakamura Yuri) scompare improvvisamente e Kaori (Fujii Mina), con l’aiuto del fidanzato Motojima e il detective Hirasawa, si mette sulle sue tracce, tentando di scoprire quanto le sia accaduto. Grazie ad una serie di sogni e visioni extrasensoriali in cui le appare la sorella, Kaori ricava alcuni indizi, scoprendo che la ragazza ha preso parte ad un gruppo di aspiranti suicidi dietro al quale si celano le macchinazioni della loro stessa madre. Emulando quanto vide fare nel reportage da lei ritrovato, Etsuko è infatti intenzionata ad usufruire dei corpi dei giovani per portare a termine le sue sperimentazioni cerebrali di percezione post mortem; l’indagine di Kaori farà di lei un’ulteriore candidata.
Disarticolato e strutturalmente carico di scarti temporali in analessi e prolessi, The Sylvian Experiments – il titolo inglese rimanda al solco che nel cervello umano divide il lobo temporale dal lobo parietale, prendendo il nome di scissura laterale o di Silvio – possiede una costruzione ad incastro discontinua e caotica, calando lo spettatore in un dedalo di informazioni frammentarie e parziali che, sovrapponendosi tra loro, tendono a congiungersi senza una logica del tutto ammissibile. Takahashi intesse una vicenda pregna di elementi che certamente conosce bene (l’egoismo e la sopraffazione, il rifiuto della vita, la percezione del diverso da sé, i collegamenti psichici, l’influenza dei defunti sul mondo dei viventi) cercando al contempo di intraprendere nuovi percorsi: non soltanto famiglie disfunzionali, prevaricazioni materne e complicità tra sorelle, ma anche sperimentazione scientifica, aperture ultraterrene, volontà di conoscenza che spinge l’essere umano ad interrogarsi sul mondo recondito che gli si pone accanto. Differendosi dai canoni del genere, Takahashi evita abilmente di soffermarsi su spettri e fantasmi vendicativi che tanto hanno e continuano ad infestare la stragrande maggioranza di queste pellicole, dedicandosi alla descrizione di una possibile interrelazione tra il mondo dei vivi e quello dei morti: l’autore intende varcare la soglia e poter finalmente sondare il recondito e l’imperscrutabile. L’attenzione della diegesi è dunque rivolta principalmente alle dinamiche di attraversamento e giunzione più che alla delineazione dell’agire del singolo soggetto, ed è in particolar modo su questo punto dove il film esprime la sua originalità, la sua forza ed al contempo il suo limite ineluttabile. L’aspetto scientifico appare infatti piuttosto un pretesto coadiuvante che un ambito d’indagine e benché sia l’incipit della narrazione non ne rappresenterà il fine ultimo. La scienza rimane un mezzo per perseguire un obbiettivo (con tanto di dovizia di particolari nel ritrarre scalpi e calotte craniche scoperte in cui si inseriscono improbabili e minuscole tecnologie capaci di stimolare gli apparati sensoriali e percettivi), ma non permetterà a Etsuko di comprendere (e contenere) l’aprirsi di un varco spazio-temporale in grado di far interagire universi differenti. Insieme all’immancabile dimora situata nei recessi boschivi (leitmotiv di eterno ritorno e riemergere alla coscienza di un passato che attrae e richiama a sé le protagoniste), il gate è un altro di quegli elementi topici che contraddistinguono la narrazione del J-Horror contemporaneo, esprimendosi come possibilità di contatto e correlazione latente, divenendone, al contempo, territorio d’indagine. Si tratta dunque di mettere in relazioni gli spazi aperti e i ricordi (la foresta e la casa dei natali) ai luoghi coercitivi del presente (gli interni dell’ospedale e la sperimentazione) in opposizione ad una zona d’ombra pregnante e carica di attesa per il suo disvelamento. La percezione ed il rimando all’esterno si scoprono nella permeabilità della materia (la parete della stanza che si fa molle ed attraversabile), tramutandosi in collante che conduce al fuori campo, il mondo altro che è in procinto di riversarsi su quello conosciuto. Il regista lavora egregiamente su un raccordo di sguardo che diviene ellissi narrativa connettendo luoghi e tempi differenti, configurandosi in una costante tensione verso il luogo del non visibile, il contesto sconosciuto che si carica di attrazione. L’articolazione del montaggio spezza la continuità della narrazione, esprimendo una componente fluida che caratterizza l’intera pellicola. Una viscosità che investe ambienti e personaggi e che ne trasporta il percepito annullando le distanze spaziali, accavallando i tempi, inficiando il senso di determinazione. Raccordo di sguardo e mezzo mediatico svelano un’alterità altrimenti non avvicinabile, non avvertibile. Un esporre a cui si somma un uso attento delle luci, fortemente contrastate negli interni e spesso correlate ad un’efficace saturazione monocromatica delle immagini. Una caratteristica che si evince specialmente nelle sequenze che ritraggono l’azione in concomitanza delle stanze dove sono rinchiuse le protagoniste: la componente luminosa si lega ad emanazioni del profilmico (il pulsare di una stufa elettrica), insinuando una nuova fisicità in oggetti inanimati. La regia di Takahashi realizza una dialettica di spazi aperti e chiusi che sancisce il tema del varco e del passaggio del corpo da un luogo (interno) ad un altro (esterno) e da uno stato materiale ad uno spirituale, conducendo alla scoperta e alla conoscenza di un nuovo universo che si rivelerà ostile e incontrollabile.
Ma cosa si pone esattamente nel non visibile, nel fuori campo che tanto attrae verso di sé le protagoniste? Il film mantiene a riguardo una malcelata ambiguità, sebbene una possibile interpretazione risiederebbe nel tentativo di voler descrivere l’eterno tormento che attende chi si è macchiato d’onta nel voler rifiutare la vita. In base ad una concezione in primo luogo buddhista, la condizione di sofferenza e patimento attende, in questo caso, i suicidi (tra cui Miyuki e Rieko) e, estensivamente, chiunque abbia vissuto portando in sé una costante pulsione verso la morte, l’ “oltre” dalla vita (nello specifico, Etsuko). Le sequenze che seguono l’implosivo climax finale contribuiscono dunque ad una logica che esprime (ma più propriamente accumula) la luce come varco simbolico, la proiezione corporea extrasensoriale quale forma di contatto con il diverso e la figura maternale, virginea e procreativa – a cui l’autore attribuisce inoltre i tratti del gaki, lo spirito famelico di carne umana, condizione punitiva per un’empia condotta di vita, dedita all’egoismo e all’avidità – in quanto simbolica rappresentante di un prossimo riversarsi degli inferi sul mondo dei vivi.
Come si è detto, la pellicola non è priva di una serie di elementi interessanti, ma la modalità con cui la tanta materia a disposizione viene percorsa e orchestrata tende ad essere eccessivamente dispersiva, portando ad una progressiva perdita dell’attenzione spettatoriale e del suo coinvolgimento. Nell’incedere narrativo, la complessità cervellotica generalmente non giova ai film di genere, in particolar modo quando il film stesso appare restio nell’osare e povero nell’esibire: l’anticlimax non pare una buona scelta all’interno di diegesi caratterizzate da un fantastico che intende fare della densità di contenuto il proprio punto di forza, lasciando inappagata nello spettatore l’attesa per un’epifania che rifiuta di darsi. The Sylvian Experiments sembra avvicinarsi pericolosamente a questa posizione, proponendo molteplici e contraddittorie risoluzioni ad interrogativi che non trovano da principio una precisa definizione.[Luca Calderini]