Mujin chitai (No Man’s Zone, 無人地帯)
Mujin chitai (No Man’s Zone, 無人地帯). Regia e soggetto: Fujiwara Toshifumi. Fotografia: Katō Takanobu. Montaggio: Isabelle Ingold. Narrazione: Arsinée Khanjian. Musica: Phillips Barre. Durata: 102′. Uscita: Tokyo FilmEx 2011 –
Link: Blog del regista (in giapponese) – Tokyo FilmEx 2011 (in giapponese) – Cristina Piccino (il manifesto)
Arriva dal regista Fujiwara Toshifumi, premio CinemaAvvenire a Pesaro nel 2006 per We can’t Go Home Again, uno dei documentari più interessanti, almeno fino ad ora, che riflettono sul disastro che ha colpito il Giappone lo scorso 11 marzo. In No Man’s Zone, questo il titolo del lavoro, Fujiwara assieme al cineoperatore Katō Takanobu parte per la zona di Fukushima dopo circa un mese dal disastro, spinto inizialmente dall’odio ed dal disgusto per le immagini banali e cinicamente unidimensionali viste nei vari telegiornali giapponesi. Al contrario, nel suo lavoro le immagini sono pulite, qualche volta sfiorano l’idilliaco, ma questa è la realtà delle zone prese in considerazione dal film, natura bellissima, pura e maestosa ancora adesso quando il nemico invisibile, le radiazioni, hanno “distrutto” intere zone pur lasciandole intatte e non alterandone minimamente il paesaggio. È questo ciò che viene ripetuto più volte da alcuni degli abitanti stessi, quando nel momento di evacuare le loro case lamentano il fatto che sembra quasi una farsa, un gioco tirato dalle autorità, “all’occhio umano non è cambiato niente, sembra tutto normale”, è la frase che uno degli intervistati ripete. Alle immagini dei detriti e delle rovine della prima parte del film, girato nei 20 km. di no man’s zone, si sostituiscono nella seconda parte, per cause di forza maggiore perchè la zona diventa legalmente off limits, quelle più lievi e naturalistiche della cittadina di Iitate sempre nella prefettura di Fukushima. Questa seconda zona è al di fuori del perimetro di evacuazione deciso dal governo ma con il passare dei giorni diventa tristemente popolare perché è proprio qui che vengono individuati degli hot-spot, delle zone in cui la concentrazione di radiazioni è pericolosamente alta. Dal punto di vista stilistico No Man’s Zone nella prima parte fa un diffuso uso delle carrellate laterali, la tecnica che ha prevalso in tutti i documentari visti finora: il regista con la troupe arriva di solito in macchina nelle zone del disastro e filma dall’auto in corsa dal finestrino, un modo per dare idea dell’ampiezza e dell’estensione del disastro. Però in No Man’s Zone non è uno stile abusato, anzi viene quasi abbandonato nel corso dell’opera quando l’occhio del regista si sofferma più sulle persone, sulle loro esperienze e sulle loro storie. Una delle scene più belle e riuscite di questo documentario, che ricorda per qualche verso una similare vista in Heta buraku della Ogawa Pro, è quella in cui la videocamera segue le riflessioni ed i passi di una anziana signora oramai lasciata sola nel suo bellissimo giardino. Come nel film di Ogawa, ciò che si percepisce fortemente qui è il passare del tempo, quello dell’attimo che scorre fra i pensieri dell’arzilla signora ma anche quello più ampio e vasto quando rivela le sue preoccupazioni per la vegetazione che ha coltivato lungo una sessantina d’anni. In queste poche immagini, ma anche in altre interviste o scene del film, ciò che ci viene donata è la storia di questi posti, un assaggio dei cicli storici e naturali che hanno concorso a formare queste terre che si intreccia profondamente anche con la storia del paese e l’urbanizzazione del dopoguerra. Fino a qui sarebbe un documentario ben fatto ma in fondo simile agli altri che sono passati nei teatri giapponesi. Ciò che secondo noi fa la differenza è il modo in cui le immagini che vediamo e in cui compare spesso anche la figura del regista con le sue riflessioni, anche banali se vogliamo dettate dall’emozione, vengono intessute con le riflessioni della voce narrante. Niente di nuovo si dirà, ma a parte la dolcezza della voce in sè, quella di Arsinée Khanjian, moglie del regista Atom Egoyan (amico-conoscenza di Fujiwara stesso), si ha l’impressione che stiamo assistendo ad un film dentro al film. Il commento, cioè, va a far deragliare le immagini ed il loro valore scontato che uno spettatore attribuirebbe loro di primo acchito; sembra quasi di assistere a due documentari, quello girato e commentato dal regista in loco, e quello commentato e scritto, sapientemente, dallo stesso Fujiwara in un secondo momento. Le parole della narrazione ci forniscono fin dal primo istante una cornice filosofica in cui inserire l’atto stesso del documentare per immagini. No Man’s Zone è così un documentario-saggio, un film che partendo dalle immagini girate dentro i 20 km attorno alla centrale nucleare di Fukushima, si sviluppa come un’intelligente riflessione sull'(assenza) di significato che le immagini di distruzione hanno ormai assunto in questo stadio della nostra società contemporanea. D’altro lato però ci viene anche mostrato come le immagini stesse assuefacendoci possano dar realtà ad accadimenti che altrimenti non solo non sarebbero ricordati, ma la cui esistenza sarebbe addirittura paradossalmente negata. Nel corso del film infatti Fujiwara ci e si domanda se qualcuno ancora si ricordi del terremoto avvenuto in Armenia nel 1988, disastro che ha prodotto pochissime se non nessuna immagine. Oppure si interroga sul senso che oramai attribuiamo alle torri gemelle di New York dimenticando forse ciò che esse furono prima che l’immagine-fissa-finale facesse morire per sempre la loro storia. La stessa cosa succede con le zone colpite dal terremoto e dallo tsunami, una specie di fermo immagine, sembra suggerirci l’autore, che cancella la ricchezza paesaggistica, storica ed umana del luogo e che nella sua falsa tragicità non trasmette alcun vero significato allo spettatore. Egli è solo convinto di essere toccato dal tremendo spettacolo che gli scorre davanti agli occhi ma un’autoriflessione più attenta lo porterebbe a comprendere l’inanità di tal visione e più in profondità la falsa pietà che nasce da un forte godimento verso tali immagini stesse. È proprio ciò che succede in una delle scene topiche del film, di stampo quasi tarkowskiano, quando un lungo piano sequenza circolare fra le macerie finisce per diventare una specie di anestesia, è come se ci accorgessimo per accumulazione dell”inutilità delle immagini che dal nervo ottico procedono fino al cervello per infine catturarlo in quel loop malvagio dove opinioni ed immagini non hanno più alcun senso. [Matteo Boscarol]
Link: Blog del regista (in giapponese) – Tokyo FilmEx 2011 (in giapponese) – Cristina Piccino (il manifesto)
Arriva dal regista Fujiwara Toshifumi, premio CinemaAvvenire a Pesaro nel 2006 per We can’t Go Home Again, uno dei documentari più interessanti, almeno fino ad ora, che riflettono sul disastro che ha colpito il Giappone lo scorso 11 marzo. In No Man’s Zone, questo il titolo del lavoro, Fujiwara assieme al cineoperatore Katō Takanobu parte per la zona di Fukushima dopo circa un mese dal disastro, spinto inizialmente dall’odio ed dal disgusto per le immagini banali e cinicamente unidimensionali viste nei vari telegiornali giapponesi. Al contrario, nel suo lavoro le immagini sono pulite, qualche volta sfiorano l’idilliaco, ma questa è la realtà delle zone prese in considerazione dal film, natura bellissima, pura e maestosa ancora adesso quando il nemico invisibile, le radiazioni, hanno “distrutto” intere zone pur lasciandole intatte e non alterandone minimamente il paesaggio. È questo ciò che viene ripetuto più volte da alcuni degli abitanti stessi, quando nel momento di evacuare le loro case lamentano il fatto che sembra quasi una farsa, un gioco tirato dalle autorità, “all’occhio umano non è cambiato niente, sembra tutto normale”, è la frase che uno degli intervistati ripete. Alle immagini dei detriti e delle rovine della prima parte del film, girato nei 20 km. di no man’s zone, si sostituiscono nella seconda parte, per cause di forza maggiore perchè la zona diventa legalmente off limits, quelle più lievi e naturalistiche della cittadina di Iitate sempre nella prefettura di Fukushima. Questa seconda zona è al di fuori del perimetro di evacuazione deciso dal governo ma con il passare dei giorni diventa tristemente popolare perché è proprio qui che vengono individuati degli hot-spot, delle zone in cui la concentrazione di radiazioni è pericolosamente alta. Dal punto di vista stilistico No Man’s Zone nella prima parte fa un diffuso uso delle carrellate laterali, la tecnica che ha prevalso in tutti i documentari visti finora: il regista con la troupe arriva di solito in macchina nelle zone del disastro e filma dall’auto in corsa dal finestrino, un modo per dare idea dell’ampiezza e dell’estensione del disastro. Però in No Man’s Zone non è uno stile abusato, anzi viene quasi abbandonato nel corso dell’opera quando l’occhio del regista si sofferma più sulle persone, sulle loro esperienze e sulle loro storie. Una delle scene più belle e riuscite di questo documentario, che ricorda per qualche verso una similare vista in Heta buraku della Ogawa Pro, è quella in cui la videocamera segue le riflessioni ed i passi di una anziana signora oramai lasciata sola nel suo bellissimo giardino. Come nel film di Ogawa, ciò che si percepisce fortemente qui è il passare del tempo, quello dell’attimo che scorre fra i pensieri dell’arzilla signora ma anche quello più ampio e vasto quando rivela le sue preoccupazioni per la vegetazione che ha coltivato lungo una sessantina d’anni. In queste poche immagini, ma anche in altre interviste o scene del film, ciò che ci viene donata è la storia di questi posti, un assaggio dei cicli storici e naturali che hanno concorso a formare queste terre che si intreccia profondamente anche con la storia del paese e l’urbanizzazione del dopoguerra. Fino a qui sarebbe un documentario ben fatto ma in fondo simile agli altri che sono passati nei teatri giapponesi. Ciò che secondo noi fa la differenza è il modo in cui le immagini che vediamo e in cui compare spesso anche la figura del regista con le sue riflessioni, anche banali se vogliamo dettate dall’emozione, vengono intessute con le riflessioni della voce narrante. Niente di nuovo si dirà, ma a parte la dolcezza della voce in sè, quella di Arsinée Khanjian, moglie del regista Atom Egoyan (amico-conoscenza di Fujiwara stesso), si ha l’impressione che stiamo assistendo ad un film dentro al film. Il commento, cioè, va a far deragliare le immagini ed il loro valore scontato che uno spettatore attribuirebbe loro di primo acchito; sembra quasi di assistere a due documentari, quello girato e commentato dal regista in loco, e quello commentato e scritto, sapientemente, dallo stesso Fujiwara in un secondo momento. Le parole della narrazione ci forniscono fin dal primo istante una cornice filosofica in cui inserire l’atto stesso del documentare per immagini. No Man’s Zone è così un documentario-saggio, un film che partendo dalle immagini girate dentro i 20 km attorno alla centrale nucleare di Fukushima, si sviluppa come un’intelligente riflessione sull'(assenza) di significato che le immagini di distruzione hanno ormai assunto in questo stadio della nostra società contemporanea. D’altro lato però ci viene anche mostrato come le immagini stesse assuefacendoci possano dar realtà ad accadimenti che altrimenti non solo non sarebbero ricordati, ma la cui esistenza sarebbe addirittura paradossalmente negata. Nel corso del film infatti Fujiwara ci e si domanda se qualcuno ancora si ricordi del terremoto avvenuto in Armenia nel 1988, disastro che ha prodotto pochissime se non nessuna immagine. Oppure si interroga sul senso che oramai attribuiamo alle torri gemelle di New York dimenticando forse ciò che esse furono prima che l’immagine-fissa-finale facesse morire per sempre la loro storia. La stessa cosa succede con le zone colpite dal terremoto e dallo tsunami, una specie di fermo immagine, sembra suggerirci l’autore, che cancella la ricchezza paesaggistica, storica ed umana del luogo e che nella sua falsa tragicità non trasmette alcun vero significato allo spettatore. Egli è solo convinto di essere toccato dal tremendo spettacolo che gli scorre davanti agli occhi ma un’autoriflessione più attenta lo porterebbe a comprendere l’inanità di tal visione e più in profondità la falsa pietà che nasce da un forte godimento verso tali immagini stesse. È proprio ciò che succede in una delle scene topiche del film, di stampo quasi tarkowskiano, quando un lungo piano sequenza circolare fra le macerie finisce per diventare una specie di anestesia, è come se ci accorgessimo per accumulazione dell”inutilità delle immagini che dal nervo ottico procedono fino al cervello per infine catturarlo in quel loop malvagio dove opinioni ed immagini non hanno più alcun senso. [Matteo Boscarol]
ottimo articolo. questo approfondimento dedicato al cinema documentario giapponese sulla tragedia del 11 marzo è davvero una risorsa preziosa. come del resto tutto Sonatine. complimenti.
– AG
Grazie dei complimenti. Ora stiamo ora cercando di seguire i documentari giaponesi contemporanei nel loro complesso ….