Distance
*** Flashback ***
Distance (id.). Regia, soggetto, sceneggiatura e montaggio: Koreeda Hirokazu. Fotografia: Yamazaki Yutaka. Suono: Mori Eiji. Interpreti: Asano Tadanobu (Koichi Sakata), Arata (Atsushi Mizuhara), Iseya Yusuke (Masaru Enoki), Terajima Susumu (Minoru Kai), Natsukawa Yui (Yamamoto Kiyoka). Produzione: TV Man Union, Engine Film, Cine Racket, Imagica production. Durata: 132′. Uscita nelle sale giapponesi:26 maggio 2001.
Link: Chris MaGee (Toronto J-Film Pow-Wow) – Acquarello (Strictly Film School)
Punteggio ★★★★1/2
Distance è un film enigmatico ed affascinante, con il quale nel 2001 Koreeda sembra voler chiudere, dopo Maboroshi no hikari (Maborosi) e Wandafuru raifu (After Life), quella che a tutti gli effetti appare come una trilogia sui temi che gli sono cari: la morte, la memoria, la natura.
La vicenda prende spunto da un fatto realmente accaduto: l’attentato con il gas sarin alla metropolitana di Tokyo perpetrato da alcuni componenti di una setta religiosa estremista, il culto di Aum Shinrikyo, il 20 marzo 1995. La storia narrata nel film è quella dei familiari degli attentatori che ogni anno si recano sulle rive di un lago in mezzo al bosco, per commemorare il giorno del suicidio rituale che ha visto coinvolti i loro cari. Dopo aver trascorso la giornata insieme, vengono purtroppo a scoprire che l’auto con la quale erano arrivati è stata rubata, così come la motocicletta di una ragazzo che si rivela essere uno dei membri sopravvissuti della setta. Con lui troveranno riparo nella casa che era la sede del culto e trascorreranno insieme la notte dibattendosi tra i ricordi e il dolore della perdita, evocati a forza dal luogo e dalla situazione.
Il film è un vero percorso verso e dentro la memoria.
Gli oggetti, ripresi puntualmente fin dalle prime inquadrature (come le scarpe del marito di una delle donne, nell’ingresso della loro abitazione), diventano metafora del tempo, evocazione dei defunti, frammenti di passato. Nella casa isolata in un bosco che la contiene e allo stesso tempo che rappresenta visivamente il travaglio interiore degli uomini e rimanda ad un che di soprannaturale ed altamente spirituale – quasi la rappresentazione di una mitologica terra dei morti – in quel luogo prende forma una memoria collettiva. I ricordi e le contraddizioni si compongono in una inquietudine profonda, e il loro dibattersi allontana l’effetto risolutivo che avrebbe il raggiungere una qualche verità, anche se non assoluta, che qui non è dato neppure di ipotizzare. Koreeda “tiene a distanza”, sottrae, lascia vuoti riempiti solo dai rumori del bosco, in quel cinema dell’assenza che raggiunge a mio parere in questo film un culmine quasi fisicamente doloroso per lo spettatore.
Quasi horror, si è detto, questo suo modo di mettere in discussione la percezione del reale, con lo sguardo che si carica di distorsione mentre osserva esseri e ambienti che recano i segni di ciò che li trascende.
Il film è tragicamente concentrato sul tema delle sette e del loro rapporto con la società. Murakami Haruki nel suo Underground – Racconto a più voci dell’attentato alla metropolitana di Tokyo, del 2003, pone l’accento sul rischio che corre la società nel relegare episodi come questo nei fatti di cronaca nera, rendendo più facile la presa di distanza ed il conseguente superamento del dolore causato da morti inspiegabili, ma senza cogliere la realtà del fenomeno. Che è anche quello – nel caso della setta Aum fu così – di persone apparentemente “normali”, alla ricerca di un sistema alternativo, in ipotesi più spirituale, rispetto al modello proposto dalla società nella quale vivono. Koreeda mette in scena proprio la complessità e l’incoerenza di eventi correlati al modo di essere dell’intera società, che hanno radici profonde nei mali della società stessa e per i quali è impossibile definire con certezza responsabilità che sembrano ambiguamente apparire su entrambi i fronti, quello delle vittime e quello dei carnefici.
Koreeda stesso ricorda come all’inizio della lavorazione del film non ci fosse neppure una vera e propria sceneggiatura. Venivano forniti agli attori spunti sulla situazione e sul carattere e il resto prendeva vita direttamente dalla loro improvvisazione. In effetti Distance si pone in bilico tra documentario e fiction: secondo alcuni si alternerebbe un ritmo “naturale”, o del presente, composto di riprese per lo più realizzate con camera a mano, da cinéma vérité, ad un ritmo “urbano”, o del passato, caratterizzato da riprese frontali, con piani fissi, come nei numerosi flashback. Lunghi piani sequenza, nel silenzio dei personaggi, creano poi “spazi” riempiti dai suoni della natura che si pongono come pause di riflessione. Lo spazio all’interno della casa è spesso costruito visivamente in modo destabilizzante: con riprese dall’alto o con prospettive tali che i vari personaggi hanno difficoltà ad essere ricompresi nella stessa inquadratura, quasi a ribadire la distanza fra loro.
Il film è punteggiato da rimandi alle opere precedenti. Una prima sequenza interessante, tra le tante, è quella nella quale due dei personaggi, Atsushi e Masaru, nel loro viaggio verso il luogo dell’appuntamento, si fermano sul bordo di una linea ferroviaria. Una serie di inquadrature li riprende frontalmente mentre dietro di loro scorre un treno, che ricorda indubbiamente il suicidio/incidente di Ikuo, in Maborosi; in una scena successiva i due sono ripresi mentre camminano distrattamente lungo i binari, attratti dai fiori (gigli, simbolo della setta) che crescono in alto sul muro a lato degli stessi. I gigli distraggono i ragazzi come un miraggio (così come un misterioso bagliore lontano poteva forse aver attratto Ikuo in Maborosi), per raggiungere il quale non esitano a salire sul muro, e il loro “miraggio” è rappresentato proprio dal simbolo della setta.
Nel finale l’enigma/Atsushi, il personaggio che più degli altri nel corso della storia suscita dubbi circa la propria identità, torna sul pontile del lago e gli dà fuoco evocando una altrettanto misteriosa figura di “padre” (che potrebbe rimandare al leader della setta, mai mostrato nel film).
Non c’è modo di risolvere l’arcano, neppure “recuperando” alla memoria indizi disseminati nel corso del film: la struttura di legno avvolta dalle fiamme ricorda senza dubbio la pira funeraria in riva al mare di Maborosi, il momento di consapevolezza e accettazione da parte della protagonista dell’ineluttabilità della morte. D’altra parte, nel virare chiaramente verso l’incompreso e il misterioso, non fa che aumentare nello spettatore il senso di irrisolto.
Ogni cosa è (perfettamente) assente nel film di Koreeda: ogni possibile umana soluzione distante. [Claudia Bertolè]