Fukushima: Memories of the Lost Landscape
(相馬看花 ―第一部 江井部落―)
Regia, fotografia e montaggio: Matsubayashi Yōju. Durata: 111'. Anno: 2011.
Lo scorso autunno nella prefettura di Yamagata, situata nella zona occidentale del Tōhoku, nel corso del famoso festival internazionale del documentario si è tenuta una rassegna speciale che dopo pochi mesi dal terremoto ha raggruppato un numero considerevole di opere, ben 29, che del e sul disastro provavano a riflettere. Uno dei lavori che più ha riscosso i favori di spettatori ed addetti ai lavori è stato Fukushima: Memories of the Lost Landscape del giovane regista (classe 1979) Matsubayashi Yōju. Già autore del pregevole Hana to heitai (Flowers & Troops, 2009) e regista di una sezione del documentario 311 assieme a Watai Takeharu e Mori Tatsuya, Matsubayashi, che è originario della prefettura di Fukushima, riesce a creare un lavoro che ha il sapore di quelli realizzati dalla Ogawa Production a partire degli anni settanta. Ogawa e la sua troupe/famiglia hanno vissuto infatti per una quindicina di anni nella prefettura di Yamagata (dove poi hanno fondato il festival di cui sopra), in piena osmosi con il soggetto che andavano filmando, abitando in una vecchia casa contadina, coltivando riso, insomma in tutto e per tutto diventando parte integrante della comunità rurale del luogo. L'approccio è diventato così famoso che negli ambienti del documentario, anche fuori dal Giappone, si parla spesso di "stile Ogawa Pro". Questo è l'approccio, naturalmente fatte le dovute proporzioni, che sembra aver adottato anche Matsubayashi in questo suo lavoro. Come molti suoi colleghi, anche il regista si è recato nelle zone del disastro dopo poche settimane dal disastro, focalizzandosi e riponendo la propria attenzione però su quei villaggi all'interno della no man's zone, quelli che si trovano cioè a pochi chilometri dalla centrale nucleare di Fukushima. Ma il giovane regista non si è accontentato di intervistare o parlare con le persone del luogo per poi trarne le proprie conclusioni; ha voluto infatti vivere per un paio di mesi con gli sfollati (ecco l'approccio alla Ogawa) stringendo forti legami con la gente del luogo, in particolare con una coppia, i coniugi Tanaka. Diventando quasi parte del villaggio, si è così guadagnato la fiducia delle persone che hanno cominciato ad aprirsi e confidarsi con e verso la telecamera. Un processo che emerge chiaramente durante i 111 minuti del film: se le prime immagini sono infatti quelle riprese dallo stesso Matsubayashi all'interno del suo appartamento di Tokyo, negli attimi del terremoto, la scena si sposta poi, intervallata da schermate nere che ci dicono la data ed il luogo delle riprese, direttamente nella zona a pochi chilometri dalla centrale.
Una differenza formale che subito salta agli occhi fra questo lavoro ed altri che si sono visti dedicati allo stesso tema è la quasi assenza di carrellate laterali per mostrare la devastazione dello tsunami e del terremoto. Più che sui luoghi, Matsubayashi si concentra sulle persone e su quello che hanno da dirci e molto spesso li lascia raccontare e condividere le loro esperienze ed i loro ricordi. Più il documentario si sviluppa, più le immagini che nella prima mezz'ora erano traballanti, girate a bordo di macchine o camminando e con un uso del montaggio minimo, diventano più "stabili" e meno "rubate". È vero che ci sono quelle girate fino alle porte della centrale di Fukushima e quelle letteralmente rubate dal signor Tanaka con una minivideocamera all'interno della zona proibita quando ritorna a casa per recuperare alcuni oggetti, è altrettanto vero però che il tono diventa col passare del tempo più riflessivo.
Il regista, dopo aver guadagnato la fiducia della gente del luogo, comincia, per altro in modo molto discreto, a far domande più profonde. Anche qui come già in No Man's Land, le parole dei vecchi fanno risuonare cicli storici che ci riportano addirittura prima della guerra e che gettano luce con poche ed essenziali battute sui processi di industrializzazione che, nel bene e nel male, hanno cambiato la faccia e generato ciò che definiamo il Giappone moderno. Le parole di un ottantenne che ha dedicato la vita al lavoro nella centrale, nel reparto sicurezza, sembrano quelle di un militare vecchio stile, fedele allo stato ed all'imperatore. Per contrasto, sono molto amare quelle di un altro anziano che candidamente associa la costruzione della centrale alla base militare che esisteva in precedenza ed al controllo e dominio del territorio delle grandi zaibatsu nel periodo post-bellico. Da tutte queste testimonianze, filtrate e stimolate dall'occhio della videocamera di Matsubayashi, ne esce una narrazione di rottura e di crisi, dove tutto cioè si fa più evidente e chiaro raccontandoci di cambiamenti culturali, antropologici, sociali ed economici che negli ultimi 50-60 anni hanno trasformato irreparabilmente le zone rurali del Giappone. [Matteo Boscarol]