Okuribito (おくりびと、Departures). Regia: Takita Yōjirō. Sceneggiatura: Koyama Kundō. Montaggio: Kawashima Akimasa. Fotografia: Hamada Takeshi. Scenografia: Ogawa Fumio. Luci: Takaya Hitoshi. Musica: Hisaishi Joe. Interpreti e personaggi: Motoki Masahiro (Kobayashi Daigo), Yamakazi Tsutomu (Sasaki Ikuei), Hirosue Ryōko (Daigo Mika), Yo Kimiko (Uemura Yuriko), Yoshiyuki Kazuko (Yamashita Tsuyako), Sugimoto Tetta (Yamashita), Sasano Takashi (Hirata Shokichi), Minegishi Tōru (Daigo Yoshiki), Yamada Tatsuo (Togashi), Ishida Tarō (Sonezaki), Miyata Sanae (Togashi Naomi), Ōtani Ryōsuke (padre di Tomeo), Hoshino Mitsuyo (Daigo Kazuko). Produzione: Nakazawa Toshiaki, Watai Toshihisa per Amuse Soft Entertainment, Shōchiku Company, Shogakukan. Produttore esecutivo, Mase Yasuhiro. Durata, 131′. Distribuito in Italia da Tucker Film. Uscita nelle sale giapponesi, 13 settembre 2008.
Link: Sito ufficiale – Mark Schilling (Japan Times) – Marc Saint-Cyr (Toronto JFilm PowWow) – Cathy Munroe-Hotes (Nishikata Film Review) – Lunapark6 – Marco Minniti (movieplayer.it)
Kobayashi Daigo è un musicista destinato a terminare la propria carriera già agli esordi. Con l’approvazione della moglie, la coppia si trasferisce in provincia dove la madre di lui gli ha lasciato una casa ed un vecchio locale in eredità. Alla ricerca di un lavoro, legge un’inserzione che pare convincente: una probabile agenzia di viaggi richiede una persona, anche senza esperienza per una mansione ben pagata. L’equivoco si chiarisce al colloquio dove scopre che il viaggio di cui si parla è la dipartita verso l’aldilà. Pur riluttante Daigo accetta l’offerta. Il suo capo, Sasaki, lo prende in simpatia mentre lui non rivela alla moglie in cosa consista effettivamente il suo lavoro. Le chiamate si susseguono e Daigo da apprendista diviene sempre più esperto del mestiere grazie all’aiuto di Sasaki. Quando la moglie scopre la verità, abbandona il marito, convinta che la sua nuova professione sia qualcosa di ripugnante. Lui continua però per la sua strada, nonostante i seri dubbi e la sensazione di essere un fallito. Quando la moglie ritorna a casa, le rivela di essere incinta. In occasione della cerimonia per la morte di un loro conoscente, la donna si rende conto che il mestiere del marito è tutt’altro che umiliante e denigratorio. Un giorno giunge la chiamata della morte del padre di Daigo, di cui questi non ha che vaghi ricordi d’infanzia. Il padre aveva abbandonato la famiglia e il figlio per fuggire con un’amante, o da quel momento Daigo non ne aveva più voluto sapere nulla. Spinto dalla moglie si recherà comunque a presiedere la cerimonia d’addio ricredendosi e avviandosi insieme alla donna verso un nuovo futuro di speranza, simboleggiata dal grembo materno e dall’imminente nascita di un figlio.
Oscar per il Miglior film straniero, Departures è un film denso, capace di commuovere e riflettere con lucidità su quell’evento unico e “irrappresentabile” che è la morte. Non quella spettacolare o violenta, non quella eroica: la morte semplice, che tutti tocca e tutti coinvolge.
Il film coniuga introspezione e distacco umoristico, tradizione e modernità, accenti melodrammatici e poetici, con toni da commedia romantica, attraverso un intreccio che mantiene in costante equilibrio il coinvolgimento emotivo dello spettatore e lo sguardo filosofico, morale e quindi religioso che sottende la trama. Infatti, la morte assume una molteplicità di sfumature intorno alle quali si articolano tante potenziali ramificazioni narrative: è sempre presente, si respira e si tocca ad ogni istante, a partire dal rituale della cerimonia, nei dettagli biografici del protagonista, nei dialoghi, negli atteggiamenti e negli accadimenti della comunità. Essa però è sempre fuoricampo: ne vengono mostrate le conseguenze, le sofferte reazioni e le dinamiche affettive che si dilatano in profondi silenzi, gesti di devozione e rispetto, screzi e tensioni che regolano le dinamiche relazionali.
Il punto di vista sia figurativo che morale respinge la morte come evento soggettivo e la rende invece universale, ponendo tutte le sue vittime sul medesimo piano. Il corpo in stato di decomposizione dell’anziana, quello della bella donna che si scopre essere un transessuale, quello del proprio padre ormai perduto dall’infanzia, rappresentano l’esito di un evento messo in ellissi e la cui causa non interessa.
È un percorso educativo quello che compie il protagonista la cui evoluzione è data proprio attraverso le dinamiche del suo sguardo con le quali si identifica la macchina da presa. È una scelta morale quella di mostrare i cadaveri solamente nella loro bellezza e vitalità che acquistano attraverso la detersione e il trucco. È tramite i reiterati e minuziosi dettagli del rito che il protagonista apprende le fasi della cerimonia e impara ad apprezzarne il senso profondo. Quando il datore di lavoro celebra la funzione, la sua voce ne commenta ed elogia la calma e la precisione, la serenità e la commovente premura, mentre una serie di campi e controcampi legano il giovane all’oggetto della sua visione. Questa dinamica comunicativa si ripropone invertendosi quando è lo stesso maestro che osserva l’allievo nel compimento del rito, proprio in quella scena in cui l’ironia contrasta con la solennità dell’istante, davanti al cadavere del travestito Tomeo. Scena che rivela la sua centralità per il fatto stesso che, oltre a rappresentare la prima vestizione di Daigo e a sottolinearne la maturazione avvenuta, è già anticipata nell’esordio del film.
Lo sguardo di Daigo è indirizzato anche verso il passato che si identifica in particolare con la figura del padre rinnegato e osteggiato a più riprese dallo stesso protagonista, la cui voce narrante ne commenta negativamente la figura, il cui ricordo vede sfocata l’immagine del suo volto, la cui accusa di viltà è a più riprese indirizzata. La stessa autopresentazione di Daigo, poi ripetuta, pone l’accento sul proprio passato deludente del quale tira le somme.
Il protagonista si fa vettore e filtro di una tale complessa visione lungo il suo percorso di apprendimento che presuppone la graduale acquisizione di un rapporto diretto (anche visivo) con la morte, il quale procede parallelamente con la sua educazione sentimentale, volta a trovare l’integrità familiare che concilia, nell’immagine di chiusura, l’avvento di una nuova nascita e la liberazione dai ricordi ossessivi. Perno di una tale formazione è il datore di lavoro Sasaki, suo mentore, cinico, sensibile e paterno, anch’egli palpabile vittima della sofferenza causata dalla perdita di chi si ama. La vita coniugale che fa da contraltare muove da contrasti ironici per assumere toni melodrammatici nella scena della separazione in cui la donna decide di tornare dai propri genitori a causa del lavoro dell’uomo. L’ostinazione di Daigo rende il suo nuovo mestiere una missione dall’indubbia carica mistica. Del resto, a nulla servono i contrasti, oltre che con la moglie, con la stessa comunità ostile verso la sua professione, ma inaspettatamente capace di coglierne l’essenza, nel momento della necessità, come quando la stessa coniuge e il vecchio amico assisteranno in lacrime al consacrato rituale.
L’insieme di questi conflitti nei quali Daigo si trova al centro, con il proprio passato, con la propria compagna, con il proprio lavoro, si strutturano in un flashback che nella sua corale linearità presenta una moltitudine di percorsi narrativi interni, i quali si relazionano vicendevolmente in quanto ulteriori ricordi vaghi, storie di passati sfuggenti, come quella della propria madre, della moglie di Sasaki, di ogni famiglia che porta con sé l’immagine dell’estinto: sofferenti testimonianze di un’esistenza che non è più.
L’unitaria orchestrazione di tali percorsi poggia sulla stessa alternanza di toni che non trascura l’importante funzione narrativa e metaforica della musica curata dal compositore Hisaishi Joe (già collaboratore di Kitano e Miyazaki). Un’altra linea narrativa di fondamentale importanza, che connota ulteriormente lo stratificato personaggio di Daigo, è la sua carriera di violoncellista, stroncata sin dalle prime battute. La musica funge da ulteriore canale comunicativo con il passato e quindi con lo stesso padre che l’ha iniziato al violoncello, ma ancor più diviene elemento espressivo che interpreta sentimenti ed emozioni, che dà slancio all’intensificazione melodrammatica finemente dosata e modulata in termini di poesia. [Davide Morello]