Tsukamoto ritorna dopo molti anni al personaggio che lo ha reso famoso, il mutante, l’uomo – macchina. Lo fa con questo film quasi completamente parlato in inglese, presentato al Festival del Cinema di Venezia del 2009 e al Tribeca Film Festival del 2010. Ne è passato di tempo (e si avverte) da quel primo deflagrante capitolo della “saga” che era stato
Tetsuo – The Iron Man nel 1989, delirio irrefrenabile in bianco e nero di mutazione di corpi (senza ritorno), vertigine priva di limiti, densa di allucinazioni sessuali: vero e proprio manifesto
cyberpunk del regista. Nel remake a colori, del 1992,
Tetsuo II – Body Hammer, Tsukamoto, con mezzi economici più consistenti rispetto al primo, aveva voluto delineare meglio i personaggi, sviluppare una storia. Quella di un padre a cui una banda di balordi rapisce figlio e moglie, la cui rabbia determina la mutazione in uomo – macchina. Un secondo capitolo più curato, ma comunque coerente all’incubo precedente, violento e surreale. In
Tetsuo: The Bullet Man il mostro è tornato, ma i suoi artigli sembrano meno acuminati e il suo pene non si trasforma più in una trivella mortale… Certo, i temi sono ancora quelli dell’alienazione, della carne che si fa metallo in un’omologazione assoluta, della metropoli-gabbia (Tokyo, i cui paesaggi urbani sono ripresi con maestria), della trasformazione attraverso il dolore e la morte. Ma il clima è patinato, l’atmosfera a tratti soffusamente trendy. L’erotismo non è più quello distruttivo e morboso, sembra piuttosto un fantasma agli occhi di una moglie forte e determinata che in un’unica occasione si stringe al corpo fumante del marito trasformato. Il protagonista non è più il modesto impiegato giapponese, ma l’uomo in carriera americano (e il volto pallido di Bossick non regge a mio avviso il confronto con i precedenti). Anche lui, come nel secondo capitolo, viene stimolato alla trasformazione dall’uccisione del figlioletto, ma si ritrova poi ad affrontare il proprio passato e ricordi dolorosi che emergono da un diario vergato dal padre. Alla storia, introdotta nel secondo Tetsuo, si aggiunge in questo terzo capitolo la memoria e il mondo interiore del confronto con essa, ma si sconta a mio avviso ulteriormente in originalità ed impatto. Il regista indaga, con maggior cura rispetto ai capitoli precedenti, le ragioni della trasformazione del corpo di Anthony, entra nei meccanismi familiari che sottendono le angosce del protagonista, vira addirittura al romantico, come nella scena in cui la moglie quasi con tenerezza cerca di rimuovere brandelli di metallo dal corpo martoriato del marito-macchina o, soprattutto, nel lungo abbraccio tra i due, lui nudo e non più macchina, che suggella la fine dello scontro. Evocano gli antichi splendori del delirio cyberpunk alcune sequenze della trasformazione, punteggiate da suoni pesanti e ossessivamente ripetuti, e certe riprese frenetiche. Non manca l’ironia di Tsukamoto, che in una delle sequenze iniziali, dal parabrezza dell’auto, nella parte del balordo che ha ucciso il piccolo Tom, osserva Anthony/Tetsuo che si dibatte nella propria trasformazione. Sembra proprio lo sguardo non tanto di un personaggio verso l’altro, quanto piuttosto del regista stesso alla propria creazione. Ed è uno sguardo decisamente compiaciuto. Degne di nota le sequenze sulla città, i cui palazzi sono cupi blocchi squadrati che il bianco e nero rende ancora più drammatici, sequela di tunnel, sopraelevate, corridoi di cemento e metallo. Sono scatole grigie che una misteriosa esplosione spazzerà via. Un duplice appunto, infine, sull’epilogo. Eravamo stati abituati a mostri irreversibilmente perduti nell’universo meccanico della mutazione. Non più: il mostro entra nell’incubo e ne esce, andata e ritorno dagli inferi. La sequenza finale ci mostra un Anthony ormai consapevole della propria peculiarità (intesa come peso di sofferenza, ma anche oscura forza): la prima inquadratura dopo il titolo “5 anni dopo” lo ritrae allo specchio, il volto da una parte e l’altra metà dello schermo nero, appunto. Subito dopo scene di famiglia felice, sorrisi con la moglie e con il figlioletto. Infine, in una sorta di seminterrato, Anthony passa di fianco ad un gruppo di giovani balordi che tentano di ostacolarne il passaggio. Uno di loro gli si avvicina, ma, come se avvertisse il potere straordinario di quell’individuo elegante in giacca e cravatta, si ritrae, mentre l’uomo-macchina prosegue indifferente/consapevole il proprio cammino (sui titoli di coda
Theme for Tetsuo: The Bullet Man dei Nine Inch Nails, appositamente composta per il film). Una prima riflessione sulla sequenza citata porta a considerare come con essa Tsukamoto sembri proporre, a suo modo, il tema dell’integrazione del “diverso” nella società, che riconoscendolo, appunto, come “diverso” si rivela impreparata ad affrontarlo. Oppure, sorge il dubbio che il regista abbia voluto proporre un altro spunto di riflessione, concentrandosi più sullo specifico rapporto società/uomo-macchina: nel senso che l’alienazione/meccanizzazione potrebbe aver oramai raggiunto un livello di “contaminazione” capillare. E allora, in definitiva, chiunque potrebbe essere un uomo – macchina, ovvero potremmo veramente esserlo tutti.