Yōkai hantā: Hiruko (Hiruko the Goblin)
La X edizione dell’Asian Film Festival di Reggio Emilia (16-24 marzo 2012) dedica la retrospettiva a Tsukamoto Shin’ya, che sarà presente al Festival e riceverà un premio alla carriera. In occasione di tale importante evento, Sonatine pubblica le schede critiche di tutti i film di Tsukamoto, che andranno a configurare uno Speciale Tsukamoto sempre consultabile online.
Yōkai hantā: Hiruko (ヒルコ / 妖怪ハンター , Hiruko the Goblin). Regia: Tsukamoto Shin’ya. Soggetto: Tsutsumi Koji. Sceneggiatura: Tsukamoto Shin’ya, dal manga di Morohoshi Daijirō. Fotografia: Kishimoto Masahiro. Scenografia: Akatsuka Satoshi. Musica: Umegaki Tatsushi. Montaggio: Kuroiwa Yoshitami e Tsukamoto Shin’ya. Effetti speciali: Asada Eichi. Interpreti e personaggi: Sawada Kenji (Reijirō Hieda), Kudō Masaki (Yabe Masao), Ueno Megumi (Tsukushima Reiko), Murota Hideo (Watanabe), Takenaka Naoto (Yabe Takashi). Produzione: Nakazawa Toshiaki, Masamichi Higuchi, Nakamura Toshiyasu per Sedic – Shōchiku Fuji – Nichiei Agency – Wings. Uscita nelle sale giapponesi: 11 maggio 1991. Durata: 90’.
In cerca di indizi sul misterioso tumulo rinvenuto sotto l’edificio scolastico in cui insegna, il professor Yabe è raggiunto da Reiko, una delle sue studentesse e amica del giovane Masao, che è di quest’ultima segretamente innamorato. Yabe e Reiko sono vittima dell’aggressione del feroce demone Hiruko, il quale li priva dei corpi ed utilizza il loro volto per farne creature dalla forma di ragno da riversare sul mondo. Ricevuta una missiva dal cognato Yabe, l’archeologo Hieda, si reca sul posto per far luce su quanto accaduto nei pressi del sepolcro che custodisce al suo interno forze antiche e malefiche. In compagnia di Masao, ed armato di improbabili e artigianali strumenti anti-demoni, l’uomo si mette sulle tracce di Hiruko che, nel frattempo, sta aumentando la sua prole di teste dalle zampe di ragno. Afflitto dalla perdita dell’amata e piegato dal dolore delle ustioni che si manifestano sul suo corpo ad ogni nuova vittima, Masao deve fare i conti con l’avanzata delle mostruose creature, il riottoso atteggiamento di Watanabe, il guardiano del complesso scolastico, e il fantasma di Reiko che non cessa di perseguitarlo nel tentativo di appropriarsi del suo corpo. Vagando per i meandri dell’edificio, l’impavida coppia riesce a decifrare le carte di Yabe in cui è racchiuso il segreto per sigillare definitivamente la tomba da cui è fuggito Hiruko: Masao scoprirà che nelle sue vene scorre il sangue del prescelto, il solo in grado di metter fine all’imminente demoniaca disfatta.
Reduce dall’inatteso successo internazionale di Tetsuo, Tsukamoto riceve l’offerta, da parte della casa produttrice Sedic, di girare Hiruko the Goblin, ispirato al manga Yōkai hantā (Il cacciatore di mostri) del celebre fumettista Morohoshi Daijirō. Caratterizzato da un evidente richiamo alle componenti adolescenziali dell’amicizia, dall’ambientazione rurale distante dal contesto urbano, e dalla spensieratezza del periodo estivo, il film possiede un tono piacevolmente avventuroso quanto grottesco, in sintonia con i precedenti lavori dell’autore: «Guardando alla mia produzione fino alla realizzazione di Hiruko, si nota come Tetsuo sia un’eccezione, non Hiruko». Girato on location ad Asahi, nella prefettura di Toyama e presso gli studi della Tōhō, Hirukoè stato per il regista il primo lavoro filmato in 35mm, senza che questi potesse mettere mano alla fotografia, a parte del montaggio e alle fasi promozionali. Fu infatti la Shōkichu a occuparsi della distribuzione della pellicola, escludendo Tsukamoto dal prenderne parte, e finendo così col contribuire all’insuccesso del film.
Nonostante le traversie e la sua reputazione di opera minore, Hiruko si scopre interessante per i molti di stimoli e le influenze rintracciabili al suo interno, e per la capacità di Tsukamoto di seguire le convenzioni del genere, senza però rinunciare al suo gusto per un’estetica sovraccarica e barocca. Di là dai rimandi alle precedenti prove giovanili, in 8mm, del regista, e in particolare a Kyōdai gokiburi monogatari (Giant Cockroach Story, 1975), si riscontrano scelte rappresentative dalle eterogenee influenze, dovute anche alla passione del regista per il cinema americano horror, di fantascienza e di avventura: da John Carpenter a Sam Raimi, da Ridley Scott a James Cameron. A partire da alcune componenti tipiche dello shōnen (gioventù) drama, si veda in particolare la figura dell’adolescente Masao, uno studente un po’ impacciato, seppur dall’animo nobile e valoroso, il film affonda le sue radici nell’interesse del regista verso il mostruoso (il suo Kaijyū Theater ne è un esempio emblematico) e l’ancestrale (la mitologia nipponica, gli yōkai e il folclore).
Il nome del mostro Hiruko deve le sue origini al figlio deforme e ripudiato delle divinità Izanami e Izanagi, così come ci racconta il Kojiki, l’antica opera che narra della nascita mitologica del Giappone, cui Tsukamoto fa qui esplicito riferimento. Nel film, Hiruko – cui, come vuole la mitologia, il regista attribuisce la duplice caratteristica di contaminazione e purezza – risorge dall’oscurità dove era stato condannato, innescando morte e distruzione, e rendendo così necessaria la sua repressione. Accentuando l’ambiguità del suo antagonista e del suo carattere in divenire, Tsukamoto non dà un corpo al suo demone, ma decide di farne una creatura immateriale che necessità di corpi altrui per diffondere il suo male. Hiruko, the Goblin mescola così tradizione e cinema di genere, facendo ricorso a immagini levigate e luminose, decisamente diverse da quelle ruvide e contrastate dei successivi lavori del regista.
In sintonia col resto della sua opera, e in particolare coi diversi Tetsuo, è il lavoro sulla mutazione, che qui si concentra soprattutto sul volto, concepito come un’entità a sé stante: sul corpo di Masao emergono, come piaghe cocenti, i visi delle vittime; i figli di Hiruko sono facce dalle zampe di ragno, con espressioni di rabbia e ferocia, di risentimento e dolore; i volti dei due protagonisti, invece, sono smorfie di terrore e stupore, ma anche di gioia e determinazione. Tsukamoto fa un notevole uso di primi piani che separano i volti dai corpi: le teste mozzate, le facce divenute ragni, la massa di volti sovrapposti nei passaggi finali, il viso ammiccante e spettrale di Reiko, e quelli delle anime che si levano al cielo. Volti che si contrappongono a quelli dei protagonisti Hieda e Masao, ma anche, nei passaggi onirici, a quello della sorridente Reiko, sinonimo di reintegrata purezza nelle bucoliche visioni del giovane. La compostezza espressiva di questo volto, che raggiunge vette di lirismo, come nella sequenza del canto al chiaro di luna, è in netto contrasto con le folgoranti soggettive della corsa del demone, e con l’agonizzante viso di Yabe, tagliato a metà dal margine basso del quadro, mentre il suo corpo è trascinato con foga dal mostro. Quest’ultimo piano, una vera e propria “disinquadratura”, esprime bene il gusto dell’autore per la frammentazione del corpo e il suo tentativo di creare una nuova forma di relazione fra questo e l’ambiente. Un approccio alla descrizione del movimento in rapporto alla staticità del soggetto (l’immobile smorfia del volto e il dettaglio delle caviglie della vittima) che Tsukamoto ripeterà in Haze (2005), riproponendo una sequenza costruita sugli stessi principi.
Da evidenziare nel film, che abbandona il contesto urbano, anche il ruolo della natura che, sia nella realtà, sia nella sua dimensione onirica, diviene fonte di vita, luce e reintegrazione del benessere, anticipando così un’opera successiva come Vital (2004). Sebbene siano principalmente spunti, i passaggi dedicati alla componente naturale si affacciano nel corso dell’opera in maniera continua: dalle tre inquadrature in campo lungo di spazi aperti e dai cromatismi accesi che contraddistinguono l’aggressione di Reiko ai danni di un coetaneo, al cielo terso che sovrasta il protagonista nella sequenza finale, Tsukamoto cerca con insistita frequenza un rapporto tra l’essere umano e l’universo che lo circonda. Allo spettro della commistione organica della carne e della materia si sostituisce dunque l’enfasi dell’accostamento salvifico dell’ambiente, sovente traslato nella visione e nella parziale purezza di Reiko.
Considerato all’interno dell’opera complessiva dell’autore, come vede bene anche Tom Mes (Tom Mes, Iron Man the cinema of Shin’ya Tsukamoto, 2005, Fab Press), Hiruko, the Goblin, assumendo un punto di vista adolescenziale, mette in scena una serie di personaggi che combattono contro la trasformazione come portatrice di male e disfacimento, passando attraverso una situazione di disequilibrio che necessita reintegrazione per ritornare alla normalità. È questa una posizione diametralmente opposta alla maggior parte dei film dell’autore, secondo i quali il mutamento e l’intervento sul corpo, imprescindibilmente caratterizzato da violenza e dolore, è l’unica via per raggiungere la consapevolezza di una nuova catartica comprensione della propria esistenza. [Luca Calderini]