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SONATINE CLASSICS

SONATINE

Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Toni Takitani

*** Flashback ***

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Tony Takitani  (トニー滝谷, Toni Takitani). Regia e sceneggiatura: Ichikawa Jun. Soggetto: dall’omonimo racconto di Murakami Haruki. Montaggio: Tomō Sanjo. Musica: Sakamoto Ryūichi. Interpreti e personaggi: Ogata Issei (Tony e Shozaburō Takitani); Miyazawa Rie (Konuma Eiko, Hisako); Hidetoshi Nishijima (narratore). Produzione: Tony Takitani Film Partners, Ichikawa Jun Office, Wilco Production. Durata: 75’. Uscita nelle sale giapponesi: 29 gennaio 2005. 

Link: Mark Schilling (Japan Times) – Chris MaGee (Toronto J-Film PowWow) – Jonathan Trout (BBC Films)
Tratto dall’omonimo racconto di Haruki Murakami (pubblicato nel 2010 da Einaudi nella raccolta I salici ciechi e la donna addormentata,  nella traduzione di Antonietta Pastore), Tony Takitani è prima di tutto un bell’esempio, libero e fedele, di trasposizione cinematografica. I dialoghi corrispondono alla lettera al testo scritto, sceneggiatura e racconto procedono pressoché all’unisono nel narrare la solitaria esistenza di Tony. Prima il ritratto dei genitori: un solo poetico quadro dedicato alla madre, morta tre giorni dopo il parto, e la presenza, sporadica e indifferente, del padre Shozaburō, trombettista jazz di un certo successo, ma poco tagliato per il mestiere di genitore. Poi, in successione,  l’infanzia e la giovinezza di Tony, il suo talento per il disegno che diventa mestiere. L’amore per la giovane Eiko, che si veste «come se fosse avvolta da una speciale brezza», «come un uccello che decolla per una terra lontana». Un matrimonio sereno, senza ombre, turbato però dai continui acquisti di abiti da parte di Eiko, che tenta di liberarsi da questa dipendenza con un atto di ribellione (la restituzione degli ultimi acquisti) che la conduce a morire in un incidente stradale. La nuova solitudine del protagonista, che immagina di potersi abituare al dolore ingaggiando un’assistente, Hisako, che indossi gli abiti che furono di Eiko. Il pianto della prescelta alla vista degli abiti, Tony che comprende la fine del suo amore e licenzia Hisako prima ancora che inizi il suo lavoro en travesti, per poi liberarsi di tutti gli abiti della moglie «a un ventesimo del denaro speso per comprarli». La morte di Shozaburō, la vendita dei suoi dischi jazz per «una bella somma» e Tony che rimane, una volta di più, veramente solo.  
Per quanto fedele al racconto originale, il film vi si sovrappone solo in parte. Il tagliente nichilismo in forma di fiaba che pervade il racconto di Murakami cede il passo a una chiara simpatia per il protagonista: a parità di storia, il discorso si focalizza sulla vittima (l’uomo) e non sul carnefice (il destino). Protagonista del racconto è, infatti, la distribuzione casuale della morte, talvolta fortunosamente evitata (come accade a Shozaburō prigioniero in Cina durante la seconda guerra mondiale) e più spesso incontrata a sorpresa, in sala parto (dalla madre di Tony) o a un incrocio stradale (come capita a Eiko). Murakami ci comunica l’esistenza di un cosmo inospitale; Ichikawa, invece, ci parla dell’uomo, che si oppone al vuoto cercando di costruire un ordine, fabbricando rapporti.
L’intenzione di andare oltre alla fonte d’ispirazione è chiara sin dal prologo del film, dove vediamo un bambino intento a costruire una nave di sabbia sulla spiaggia e, sullo sfondo, le luci dei lampioni e il profilo della città all’imbrunire. Chiuso nel suo impermeabile, un impiegato passa accanto al bimbo portando una voluminosa borsa da lavoro, rallenta impercettibilmente il passo e gira intorno alla costruzione, con il viso confinato nel fuori campo e le note stranianti di Sakamoto Ryūichi ad avvolgere il quadro colorandolo di tristezza. La libera interpretazione del regista si riafferma, ancora, immediatamente prima dei titoli di coda, con l’addizione di un enigmatico finale aperto a dire della reazione dell’individuo alle onde del destino.
Sono due eventi che non compaiono nel racconto, ma ne sintetizzano alla perfezione il clima, che sa di solitudine, d’indifferenza, di lontananza da una qualsiasi prospettiva comunitaria; con l’addizione, però di una tensione progettuale che porta l’uomo a confrontarsi, senza soccombere, con la fragilità dei materiali a disposizione.
Il gioco dei continui rimandi fra parole e immagini si manifesta anche nell’uso che il film fa dei movimenti di macchina. Numerose le carrellate laterali lentissime, quasi al rallentatore: l’azione sembra così svolgersi come in un acquario, o nelle teche di un museo. Qui la scelta di regia rende fedelmente la non empatia del racconto, esamina la realtà che scorre davanti all’obiettivo – “le infinite possibilità (o almeno in teoria le infinite possibilità) che l’esistenza di un essere umano comporta” – come un reperto al microscopio. Subito, però, il regista torna a un registro più condiviso, utilizzando un “mezzo rallenty” poetico ed elegantissimo (la madre di Tony vestita con il tradizionale kimono ripresa fra gli alberi; Eiko, intenta a lavare l’automobile, che volge scherzosamente la pompa dell’acqua in direzione di Tony), buono anche per anticipare che Hisako non potrà mai essere Eiko (i due personaggi, interpretati dalla medesima attrice, salgono la strada di casa Takitani con ben diverso portamento). I campi lunghi e lunghissimi sulla città, con l’inquadratura satura di cielo, riportano il discorso alle molteplici assenze intorno alle quali si articola il racconto di Murakami.
Ancora equilibrio fra soggetto e originalità nell’uso della voce narrante: elemento di per sé fortemente letterario, ma sempre a rischio di maniera. Ichikawa non vi rinuncia, mantenendo vivo il tono fiabesco del racconto, ma lo rivitalizza, inserendo una continua interazione fra narratore e personaggi – essi stessi spettatori della loro vita – che intervengono a chiudere una frase, si sostituiscono al narratore, danno voce alla loro interiorità. L’artificio si fa notare non tanto perché genera sorpresa e induca empatia, ma poiché supera la freddezza che è la cifra stilistica del racconto di Murakami.
La sensazione che prevale al termine della visione è quella di una temperatura emozionale più calda rispetto a quella del racconto: lo svolgimento iconico avvicina lo spettatore alla soggettività del protagonista, mentre quello letterario traveste in forma di quasi-fiaba un’amara riflessione sul destino e sul nulla che circonda l’uomo. Il germe di tale lettura è presente in Murakami, dove scrive che «in quell’uomo c’era qualcosa di bellissimo»: il film svolge proprio la semplice bellezza che si sprigiona dal desiderio di “normalità” (personale, professionale e sentimentale) di Tony Takitani. [Gian Piero Chieppa]


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