Tokyo fist (東京フィスト – Tokyo Fist)
La X edizione dell’Asian Film Festival di Reggio Emilia (16-24 marzo 2012) dedica la retrospettiva a Tsukamoto Shin’ya, che sarà presente al Festival e riceverà un premio alla carriera. In occasione di tale importante evento, Sonatine pubblica le schede critiche di tutti i film di Tsukamoto, che andranno a configurare uno Speciale Tsukamoto sempre consultabile online.
Tokyo fist (東京フィスト– Tokyo Fist). Regia, soggetto, fotografia, scenografia e montaggio: Tsukamoto Shin’ya. Sceneggiatura: Tsukamoto Shin’ya, Saito Hisashi. Musica: Ishikawa Chū. Effetti Speciali: Fukaya Akira, Ōda Takashi, Sagae Hiroshi. Trucco: Sasaki Kaori. Suono: Shibazaki Kenji. Interpreti e personaggi: Tsukamoto Shin’ya (Yoshiharu Tsuda), Tsukamoto Kōji (Takuji Kojima), Fujii Kaori (Hizuru), Musaka Naomasa (Haze), Takenaka Naoto (Ohizumi), Taguchi Tomorowo (il maestro di tatuaggi), Kanaoka Nobu (l’infermiera), Wajima Kōichi (Shirota). Produttori: Tsukamoto Shin’ya, Joo Kiyo. Produzione: Kaijyu Theatre. Durata: 87’. Uscita nelle sale giapponesi: 21 ottobre 1995.
Yoshiharu Tsuda è un anonimo agente assicurativo che vive un’esistenza di routine assieme alla sua fidanzata Hizuru, in un moderno appartamento di Tokyo. Un giorno Tsuda incontra casualmente Kojima, suo vecchio compagno di liceo ed ora pugile professionista, ma cerca di evitarlo in tutti i modi. Quando Kojima farà la conoscenza di Hizuru, ed il passato che lo lega a Tsuda verrà a galla, la rabbia di quest’ultimo esploderà, facendo emergere quelle emozioni e pulsioni da tempo sopite ed ingabbiate nella quotidianità della vita moderna.
Dopo Tetsuo II – Body Hammer, Tsukamoto persegue, approfondendola, la relazione tra la moderna metropoli di Tokyo e l’essere umano, forse anche stimolato da certe osservazione della critica più attenta. Tokyo Fist è una tappa fondamentale nella filmografia del regista, a partire dalla rappresentazione della totale sottomissione ed abnegazione dell’uomo nei confronti dell’apparato del progresso sociale e tecnologico, come inevitabile “evoluzione” di una specie che regredisce allo stato di automa. Tsuda si muove in una città fredda e austera, marziale e geometrica, popolata da una massa anonima di individui incuranti del prossimo. La vita è scandita ogni giorno dalle medesime azioni e messa in scena da un montaggio serrato e ritmico, che si aggrappa alle martellanti e dirompenti composizioni del fedele Ichikawa Chū. La vita di Tsuda e Hizuru appare segnata dalla più totale apatia, come dicono le scene in cui i due siedono in silenzio e privi di espressione davanti al televisore, immersi in fredde luci blu al neon e squadrati dalle linee rette del monocromatico appartamento in cui risiedono. La loro sembra essere una vita da automi, priva anche di ogni desiderio sessuale, al punto da non ricordare più nemmeno l’ultima volta che hanno fatto l’amore.
L’arrivo di Kojima, e il suo subdolo insinuarsi nella vita delle coppia, è l’elemento destinato a rompere questo apatico equilibrio. Come in Tetsuo 2, si riprende così il motivo del triangolo amoroso, amplificandone ed approfondendone i contenuti. Dal momento della comparsa del pugile, le intenzioni di Tsukamoto si palesano con evidenza: Kojima è vita, movimento, rabbia e calore, Tsuda, invece, è freddezza, apatia e impotenza. I due si conoscono dai tempi delle scuole superiori quando avevano condiviso una tragica esperienza: l’omicidio di una loro amica da parte di alcuni vandali. Fu proprio quel fatto che aveva spinto Kojima ad iscriversi in una palestra, mentre Tsuda aveva preferito nascondersi nelle retrovie del mondo impiegatizio. Il personaggio di Kojima è da subito tratteggiato da ben precise scelte cromatiche, come testimoniano i filtri rossi – comunicanti impeto e vitalità – che Tsukamoto usa per ritrarlo all’interno della sua vecchia e fatiscente abitazione: vissuta, sporca, disordinata, obsoleta e circondata da una modernità sempre più fagocitante. Il fine del suo nuovo incontro con Tsuda è quello di ridare vita al suo vecchio amico, tramortito dalla vita di oblio che conduce ormai da troppi anni. È qui che entra in gioco la terza parte del triangolo: Hizuru. Kojima decide, infatti, di destare la rabbia di Yoshiharu, proprio mediante la gelosia per Hizuru, provocando così il suo odio e dando vita a uno scontro che attraverserà tutto il film. Tsukamoto sembra voler provocare il sentimento di orgoglio maschile dello spettatore, quando mostra le diverse disfatte subite dal gracile Tsuda nei confronti di Kojima: tanto mite e inerme è il primo, quanto atletico, sfacciato e sicuro di sé è il secondo. La débâcle di Tsuda assumerà poi una dimensione quasi grottesca, e deprimente per lo stesso Tsuda, quando si scoprirà che Kojima non è che un dilettante nel mondo della boxe nazionale.
Dei tre personaggi del triangolo, Hizuru è indubbiamente quello più forte. Anche lei tuttavia è toccata dall’arrivo di Kojima, dal momento che, improvvisamente, inizierà a praticare sul proprio corpo il body piercing. Sia per Hizuru, sia per Tsuda, l’incontro con Kojima significherà una riscoperta del proprio corpo, che passerà attraverso un rigeneratore e necessario dolore fisico, quello degli oggetti acuminati che penetrano la pelle, in un caso, quello dei colpi subiti, nell’altro. Il viaggio di Tsuda sarà, più di quello di Hizuru, un viaggio irto di difficoltà. Quando, ad esempio, indossa per la prima volta i guantoni, non riuscirà a boxare, perché spasmi di nausea gli impediranno di muoversi. Sono le stesse sensazioni che aveva già provato in strada, quando si era imbattuto in un gatto in decomposizione. Superate queste difficoltà, Tsuda riuscirà ad appropriarsi della sua vitalità corporea, liberandosi da quell’intorpidimento fisico e mentale che lo aveva imprigionato, attraverso un estenuante esercizio, che lo porterà anche a ignorare tutta una serie di convenzioni sociali ( si dimenticherà di pagare l’affitto, ignorerà l’esito di alcuni esami clinici, non si preoccuperà del suo volto livido mentre si aggira in ufficio). Lo scontro finale con Kojima gli costerà un occhio, ma gli farà acquistare una coscienza di sé che lo eleverà dalla silente e inespressiva massa che lo circonda. Con Tokyo Fist, Tsukamoto porta davvero a compimento un aspetto chiave del suo cinema: l’idea che la maturazione e la realizzazione di un individuo debbano passare attraverso la sofferenza e il dolore. [Fabio Rainelli].
Dopo Tetsuo II – Body Hammer, Tsukamoto persegue, approfondendola, la relazione tra la moderna metropoli di Tokyo e l’essere umano, forse anche stimolato da certe osservazione della critica più attenta. Tokyo Fist è una tappa fondamentale nella filmografia del regista, a partire dalla rappresentazione della totale sottomissione ed abnegazione dell’uomo nei confronti dell’apparato del progresso sociale e tecnologico, come inevitabile “evoluzione” di una specie che regredisce allo stato di automa. Tsuda si muove in una città fredda e austera, marziale e geometrica, popolata da una massa anonima di individui incuranti del prossimo. La vita è scandita ogni giorno dalle medesime azioni e messa in scena da un montaggio serrato e ritmico, che si aggrappa alle martellanti e dirompenti composizioni del fedele Ichikawa Chū. La vita di Tsuda e Hizuru appare segnata dalla più totale apatia, come dicono le scene in cui i due siedono in silenzio e privi di espressione davanti al televisore, immersi in fredde luci blu al neon e squadrati dalle linee rette del monocromatico appartamento in cui risiedono. La loro sembra essere una vita da automi, priva anche di ogni desiderio sessuale, al punto da non ricordare più nemmeno l’ultima volta che hanno fatto l’amore.
L’arrivo di Kojima, e il suo subdolo insinuarsi nella vita delle coppia, è l’elemento destinato a rompere questo apatico equilibrio. Come in Tetsuo 2, si riprende così il motivo del triangolo amoroso, amplificandone ed approfondendone i contenuti. Dal momento della comparsa del pugile, le intenzioni di Tsukamoto si palesano con evidenza: Kojima è vita, movimento, rabbia e calore, Tsuda, invece, è freddezza, apatia e impotenza. I due si conoscono dai tempi delle scuole superiori quando avevano condiviso una tragica esperienza: l’omicidio di una loro amica da parte di alcuni vandali. Fu proprio quel fatto che aveva spinto Kojima ad iscriversi in una palestra, mentre Tsuda aveva preferito nascondersi nelle retrovie del mondo impiegatizio. Il personaggio di Kojima è da subito tratteggiato da ben precise scelte cromatiche, come testimoniano i filtri rossi – comunicanti impeto e vitalità – che Tsukamoto usa per ritrarlo all’interno della sua vecchia e fatiscente abitazione: vissuta, sporca, disordinata, obsoleta e circondata da una modernità sempre più fagocitante. Il fine del suo nuovo incontro con Tsuda è quello di ridare vita al suo vecchio amico, tramortito dalla vita di oblio che conduce ormai da troppi anni. È qui che entra in gioco la terza parte del triangolo: Hizuru. Kojima decide, infatti, di destare la rabbia di Yoshiharu, proprio mediante la gelosia per Hizuru, provocando così il suo odio e dando vita a uno scontro che attraverserà tutto il film. Tsukamoto sembra voler provocare il sentimento di orgoglio maschile dello spettatore, quando mostra le diverse disfatte subite dal gracile Tsuda nei confronti di Kojima: tanto mite e inerme è il primo, quanto atletico, sfacciato e sicuro di sé è il secondo. La débâcle di Tsuda assumerà poi una dimensione quasi grottesca, e deprimente per lo stesso Tsuda, quando si scoprirà che Kojima non è che un dilettante nel mondo della boxe nazionale.
Dei tre personaggi del triangolo, Hizuru è indubbiamente quello più forte. Anche lei tuttavia è toccata dall’arrivo di Kojima, dal momento che, improvvisamente, inizierà a praticare sul proprio corpo il body piercing. Sia per Hizuru, sia per Tsuda, l’incontro con Kojima significherà una riscoperta del proprio corpo, che passerà attraverso un rigeneratore e necessario dolore fisico, quello degli oggetti acuminati che penetrano la pelle, in un caso, quello dei colpi subiti, nell’altro. Il viaggio di Tsuda sarà, più di quello di Hizuru, un viaggio irto di difficoltà. Quando, ad esempio, indossa per la prima volta i guantoni, non riuscirà a boxare, perché spasmi di nausea gli impediranno di muoversi. Sono le stesse sensazioni che aveva già provato in strada, quando si era imbattuto in un gatto in decomposizione. Superate queste difficoltà, Tsuda riuscirà ad appropriarsi della sua vitalità corporea, liberandosi da quell’intorpidimento fisico e mentale che lo aveva imprigionato, attraverso un estenuante esercizio, che lo porterà anche a ignorare tutta una serie di convenzioni sociali ( si dimenticherà di pagare l’affitto, ignorerà l’esito di alcuni esami clinici, non si preoccuperà del suo volto livido mentre si aggira in ufficio). Lo scontro finale con Kojima gli costerà un occhio, ma gli farà acquistare una coscienza di sé che lo eleverà dalla silente e inespressiva massa che lo circonda. Con Tokyo Fist, Tsukamoto porta davvero a compimento un aspetto chiave del suo cinema: l’idea che la maturazione e la realizzazione di un individuo debbano passare attraverso la sofferenza e il dolore. [Fabio Rainelli].