Kodokuna wakusei (孤独な惑星, In a Lonely Planet)
Kodokuna wakusei (孤独な惑星, In a Lonely Planet). Regia e montaggio: Tsutsui Takefumi. Sceneggiatura: Miyazaki Daisuke. Fotografia: Ashizawa Akiko. Musiche originali: Endō Shingo e Pierre Bastien. Interpreti: Tetsuo (Ayano Gō), Mari (Takeko Aya), Arisa (Mimura Takayo). Produttore esecutivo: Yamaguchi Hiroyuki. Durata: 94′. Uscita nelle sale giapponesi: 17 dicembre 2011.
Link: Sito ufficiale – Mark Schilling (Japan Times)
Punteggio ★★★
Il cinema giapponese contemporaneo è pieno di film sulla solitudine urbana e non, un tema spesso abusato, non perchè non corrisponda ad una parte di verità, ma perchè finisce per appiattire l’immagine e la percezione che lo spettatore (sia esso giapponese o straniero) ha della città nipponica. In più, per una sorta di semplificazione e contrapposizione in cui fatalmente si cade, sembra che solitudine e problemi relazionali siano legati indissolubilmente al tessuto urbano in cui le vite delle persone crescono e si sviluppano, come se la vita in campagna offrisse delle soluzioni migliori. È perciò rinfrescante quando un film che ci presenta personaggi afflitti da solitudine e complicazioni sentimentali, sebbene ambientato in città, riesca ad evadere da questi facili ma insidiosi luoghi comuni.
E’ questo il caso di Kodokuna wakusei, di Tsutsui Takefumi, regista attivo da parecchi anni sulla scena indie anche come produttore. La storia è quella di Mari, una giovane office lady che abita da sola e lavora in una piccola compagnia di import-export, e dei suoi due vicini d’appartamento, Tetsuo e Arisa, che nemmeno conosce. Un giorno, dopo una lite, il giovane si trova sbattutto fuori di casa e viene accolto dalla vicina. In un atmosfera piena di ammiccamenti e sguardi e parole che sembrano dire e non dire, i due finiscono per trovare un accordo, Tetsuo vivrà in una tenda canadese sul piccolissimo balcone dell’appartamento di Mari, che gli parlerà ogni giorno dal telefonino e gli passerà dalla finestra i pasti. Un modo strano di conoscersi e di allacciare una relazione che getta una luce parodistica ma allo stesso tempo quasi incantata sul destino dei personaggi che si muovono nel film. Sono quasi assenti i movimenti di camera e quasi tutto il film è girato all’interno dell’appartamento con sapienti giochi di luce, riflessi con l’esterno e passaggi sfuocati. È vero che c’è una simbologia dell’interno visto come destino delle giovani generazioni separate da una barriera, in questo caso il vetro della veranda o il muro che divide i due appartementi confinanti. È altrettanto vero però che visto più in profondità il film ci rivela come sia il corso delle vite stesse, nei loro assurdi movimenti, siano essi interni od esterni, il vero involucro che avvinghia e plasma il destino di ognuno. Il rituale con cui Mari spesso sposta degli spilli su una mappa del mondo è un po’ il succo senza risposta e senso del film. A essere pignoli il film non offre niente di nuovo nelle tematiche affrontate. Come però si diceva all’inizio, ciò che lo distingue è un tocco molto delicato e a volte surreale che il regista riesce a mantenere sempre in bilico fra il comico, il lirico ed il sentimentale senza rovinare tutto in un finale scontato. Anzi, proprio il finale rimane aperto, tanto nella trama che nello stile. Uno stile che si avvale dell’eccezionale apporto sonoro, laddove sia le musiche sperimentali che l’uso dei rumori esterni sono una parte fondamentale per creare quell’atmosfera di sognante normalità e di quotidiana e spicciola surrealtà che caratterizza l’opera. È un lavoro in definitiva molto curato in tutte i suoi aspetti tecnici e ciò va sottolineato specialmente in un momento come quello attuale dove molti dei film indipendenti, con idee azzeccate e prove di regia e d’attori anche superlative, troppo spesso lasciano un retrogusto amaro per la qualità stessa delle immagini, delle luci, del posizionamento della macchina da presa che troppo spesso danno all’opera un tono sciatto, scontato. Questo è un fattore che deriva parzialmente dall’uso oramai quasi totale del digitale ma ciò non può essere una giustificazione. Nel film di Tsutsui, invece, la cura per l’immagine in sè, per il tessuto stesso del visuale, grazie anche alla fotografia di Ashizawa Akiko, collaboratrice per molti film di Kurosawa Kiyoshi, esalta la buona prova d’attori ed in definitiva l’approccio metodologico del regista, in un lavoro che proprio per questo ha la capacità di ri-allucinare il quotidiano, estraniandocelo, rompendo la continuità che siamo soliti conferirgli e rendendolo in definitiva più vero. [Matteo Boscarol]
L'inizio di questa bella recensione ha un che di autobiografico… o sbaglio?
eh eh….