Barber Yoshino
Barber Yoshino (バーバー吉野, Yoshino’s Barber Shop). Regia e sceneggiatura: Ogigami Naoko. Fotografia: Shogo Ueno. Montaggio: Fushima Shin’ichi. Interpreti e personaggi: Yoneda Ryō (Keita), Ishida Hoshi (Yosuke), Motai Masako (Yoshiko), Sakurai Senri (nonno Mikawa). Produzione: Amano Mayumi, Ikehara Ken per Imagica, Nikkatsu, Pia. Durata: 96′. Uscita nelle sale giapponesi: 10 aprile 2004.
Deutsches Kinderhilfswerk – Special Mention al Festival di Berlino 2004
Link: Jasper Sharp (Midnight Eye) – Twitch
Punteggio ★★★★
In un piccolo villaggio immerso nel calmo verde degli alberi e nel rosa tenue dei ciliegi in fiore, le giornate si succedono immote, ordinate e sorridenti fra una corsa per non fare tardi a scuola, e poter così gettare uno sguardo innamorato alla bella compagna di classe, una colazione consumata in fretta perché si è a dieta, un massaggio rigenerante dopo la rasatura e una millimetrica sforbiciata di capelli dall’unico barbiere della città, la signora Yoshiko.
È lei, infatti, a disegnare da sempre le teste di tutti i ragazzini del paese, come fossero bambole kokeshi, anticamente realizzate con intento benaugurale. Depositaria di un sapere centenario, il suo taglio a scodella, ‘alla Yoshino’, proteggerebbe infatti i fanciulli dalle ire dei leggendari esseri mostruosi tengu, che incombono dalle montagne sulla serenità degli abitanti. Nei giorni immediatamente precedenti una festività locale, proprio nella classe di Keita, il figlio della parrucchiera, arriva un ragazzino di Tokyo che sfoggia capelli tinti e tirati indietro. Sarà la sua caparbia resistenza al taglio alla Yoshino a instillare, prima nel gruppo dei compagni di scuola, poi nell’intera comunità, il dubbio sul reale significato della tradizione strenuamente difesa dalla signora Yoshiko e a generare una riflessione sull’identità e sulla libertà, traguardo di un difficile, doloroso, ma autentico percorso di crescita.
È lei, infatti, a disegnare da sempre le teste di tutti i ragazzini del paese, come fossero bambole kokeshi, anticamente realizzate con intento benaugurale. Depositaria di un sapere centenario, il suo taglio a scodella, ‘alla Yoshino’, proteggerebbe infatti i fanciulli dalle ire dei leggendari esseri mostruosi tengu, che incombono dalle montagne sulla serenità degli abitanti. Nei giorni immediatamente precedenti una festività locale, proprio nella classe di Keita, il figlio della parrucchiera, arriva un ragazzino di Tokyo che sfoggia capelli tinti e tirati indietro. Sarà la sua caparbia resistenza al taglio alla Yoshino a instillare, prima nel gruppo dei compagni di scuola, poi nell’intera comunità, il dubbio sul reale significato della tradizione strenuamente difesa dalla signora Yoshiko e a generare una riflessione sull’identità e sulla libertà, traguardo di un difficile, doloroso, ma autentico percorso di crescita.
È un ironico quanto epico ralenti a introdurre il giovanissimo Yosuke che, dalla grande città, entra nel piccolo mondo antico del villaggio di Kaminoe, riprodotto in scala fra le mura dell’aula scolastica dove bambini come lui guardano ammirati e attoniti il suo taglio cool (unica parola che significativamente pronuncerà in Toilet, 2010, l’attrice feticcio della Ogigami, Motai Masako, che qui interpreta la donna barbiere Yoshiko). Proprio a Keita, figlio del conservatorismo incarnato dall’autoritaria madre-barbiere, ragazzino insicuro e geloso del successo riscosso fra le compagne dal nuovo arrivato, spetta l’incarico di fare da guida allo ‘straniero’. Costui, abituato al dubbio metodico e portatore di uno sguardo esterno a tale realtà, si interroga sul motivo per cui i suoi coetanei debbano portare lo stesso taglio ‘a fungo’, non comprendendo il nesso con la festa scintoista della divinità della montagna, in onore della quale peraltro i maschietti del villaggio devono intonare un curioso – fa notare lui – Alleluja cristiano. Anche all’interno del negozio del barbiere, punto d’incontro del gruppetto di amici di Keita, cominciano a serpeggiare domande sulla cura maniacale con cui la signora taglia a tutti i capelli. Riflesso nello specchio del negozio – sorta di quadro nel quadro che nel corso del film ospiterà alcuni momenti di riflessione di vari personaggi e l’espressione della loro individualità – un anziano e saggio cliente, facendosi portavoce della tradizione, racconta la leggenda dei tengu, mostruosi goblin da confondere nel loro tentativo di rapire i bimbi. Sarà però proprio lui, alla fine del film, a sostenere le ragioni di un inevitabile e auspicabile superamento di tali tradizioni perché esse possano assurgere al rango di leggenda.
Baluardo difensivo della tradizione, la signora Yoshiko sembra avere, oltre al potere di rimettere in moto alcuni oggetti con ben assestate mosse di judo, quello di fermare (significativamente) le cose: così come blocca il tempo, che vuole cristallizzato nelle antiche e rassicuranti consuetudini in cui tutti gli abitanti della cittadina trovano un motivo di identificazione, allo stesso modo immobilizza il ribelle Yosuke atteso al varco con le forbici in mano, e lo scemo del villaggio che spaventa tutti ma è terrorizzato dal suo sguardo severo e ‘pazzo’, nonché il marito, paralizzato dal timore di comunicarle il proprio licenziamento. Gli interrogativi sulla prepotenza della signora montano sempre più fra i piccoli, spesso alle prese con altezze da scalare (pertiche, collinette), fino a quando il varco della soglia della casa di Yosuke e il contatto con una realtà altra (la modernissima abitazione del ragazzo in cui si può giocare al computer ,e le riviste pornografiche di papà non sono nascoste poi tanto bene) conducono i bambini ad accogliere il ‘diverso’ nel gruppetto. Di Yosuke assumono così il punto di vista e le istanze di libertà che lo promuovono definitivamente leader del gruppo, da ammirare dal basso in alto, estasiati, nel momento in cui egli rivendica la libertà di ‘pettinatura’ (e quindi di personalità) come diritto costituzionale, nonché l’esigenza di mettere in discussione il principio di autorità.
Così la composta simmetria in cui, nella prima parte del film, spesso erano inquadrati i bambini (in fila indiana mentre attraversano prudentemente la strada sulle strisce; con la tunica bianca a intonare un sincretico alleluja al dio della montagna; a coppie per svolgere esercizi di educazione fisica – tutti ampi spazi naturali in cui piccole figure si muovono con grazia, come nel successivo Megane, 2007) viene scardinata nei loro bivacchi pomeridiani. L’ultima fuga notturna preannuncia l’aperta e coraggiosa rivolta che avverrà proprio nel corso della celebrazione del Giorno della Montagna, introdotta a sua volta dal viaggio verso la città vicina dove i piccoli si erano recati, invano, a farsi tagliare i capelli nella speranza di assumere un’identità propria e ‘giusta’. Durante le loro tante discussioni, veri e propri momenti di formazione fra pari, i bambini, spesso ripresi ai piedi della montagna che incombe su loro come il pesante macigno della tradizione, affrontano fra preoccupazioni e infantile incoscienza l’attrazione e il timore nei confronti del ‘diverso’, le prime pulsioni della carne, la cotta per la stessa ragazzina, la paura della punizione e il coraggio di ribellarsi alle madri, il tradimento del più vigliacco che arriva a indossare gli abiti del tengu per farli desistere dai loro intenti e il perdono dell’amico pavido. Sono questi i piani che, punteggiando il film, ne sottolineano la regia ad altezza di bambino e preparano l’inquadratura in cui i piccoli compaiono nuovamente in fila, come nelle sequenze iniziali, ma in una reiterata successione di primi piani che li mostra con i capelli tinti da loro stessi di colori improbabili e il volto illuminato dal riverbero dei fuochi d’artificio della festa. Nello scontro aperto finale fra nuovo che incalza e usanze del passato si compie così definitivamente la desacralizzazione di queste ultime, anche attraverso gli improperi rivolti alla tradizione stessa e alla ‘strega’ Yoshiko che vuole i ragazzini tricologicamente tutti uguali.
Se è attraverso le domande che si cresce, l’intera comunità – e in particolare gli altri bambini che sollevano dallo spazio adibito alla ritualità alte grida di supporto ai coetanei – alla fine sosterrà il coraggio della ribellione giovanile (anche la bella e infelice sorella di Keita lascerà la famiglia per una nuova vita) e potrà dirsi maturata nel momento in cui avrà ritrovato un equilibrio più consapevole del significato della tradizione. Tale valore pare risiedere, per la Ogigami, nella bellezza dei mandorli in fiore, nell’atmosfera di un luogo magico, nella commozione con cui si può seguire un bambino che emerge alla vita con curiosità e coraggio, e porta novità che non fanno più paura, ma vengono affrontate e accolte con un sorriso gentile. Tale saggezza, peraltro, come spesso accade nei film della regista, pare trapelare già nelle battute pronunciate dai personaggi apparentemente più deboli, delicati o silenziosi – qui il padre di Keita, succube della moglie barbiere, e lo scemo del villaggio – che si trovano a pronunciare parole di sostegno, rispettivamente, al povero Yosuke (colto in un attimo tutto adolescenziale di sconforto per la caparbietà con cui rifiuta il taglio antiestetico, non cedendo al ricatto dell’integrazione) e al coraggioso quanto combattuto Keita che scopre come diventare adulti sia in un certo modo “occuparsi degli altri”. [Manuela Russo]