Megane (めがね, Glasses)
Megane (めがね, Glasses). Regia e sceneggiatura: Ogigami Naoko. Fotografia: Tamnimine Noboru. Montaggio: Fushima Shin’ichi. Musica: Kaneko Takahiro. Interpreti e personaggi: Kobayashi Satomi (Taeko), Ichikawa Mikako (Haruna), Kase Ryō (Yomogi), Mitsuishi Ken (Yūji), Motai Masako (Sakura), Yakushimaru Hiroko (amico di Taeko). Produttore: Komuro Shūichi, Maekawa Enma per Nikkatsu, NTV, Paradise Café Inc. Durata: 106′. Uscita nelle sale giapponesi: 22 settembre 2007.
Vincitore al Sundance Film Festival 2008 – Presentato al Festival Internazionale del Cinema di Berlino 2008 nella sezione Panorama.
Link: Mark Schilling (Japan Times) – Eric Evans (J-Film PowWow) – Asianworld – Spirituality and Practice
Punteggio ★★★
Taeko, giovane donna forse in fuga dal caos della grande città, ha prenotato una stanza all’Hamada, una piccola locanda di un’isola del Sud del Giappone. Il suo proposito è rilassarsi, dedicarsi alla lettura e visitare il luogo, ma le uniche attrattive dell’isola sembrano essere l’oceano e il sedersi insieme sulla riva del mare per osservare il crepuscolo. Annoiata dall’assenza di qualsiasi forma di intrattenimento e indispettita dalle bizzarre abitudini dei curiosi personaggi che gravitano intorno alla locanda, Taeko decide di trasferirsi al Marine Palace Hotel, unica alternativa per soggiornare sull’isola. Qui però gli ospiti sono costretti a lavorare la terra e a studiare sotto lo sguardo sorridente ma implacabile dei gestori. Senza ripensamenti, Taeko torna all’Hamada dove lentamente inizia a tollerare, per poi apprezzare e infine amare, le poetiche stranezze di Yūji, il proprietario della locanda, di Sakura – san, l’anziana ospite fissa dell’isola, e di Haruna, la giovanissima insegnante di biologia perennemente imbronciata. Al piccolo gruppo si unisce, infine, un giovane che sembra provenire dalla vita passata di Taeko, che questi chiama “professoressa”. Il quintetto trascorre il tempo fra silenzi interrotti da poche e brevi battute, pranzi consumati tutti intorno allo stesso tavolo, degustazioni di granite che regalano inaspettati sorrisi, “crepuscolando” davanti all’oceano osservato da ognuno con il proprio paio di occhiali da vista.
Ci vuole un particolare talento per rintracciare il piccolo hotel Hamada su una mappa che sembra disegnata da un bambino. Eppure Taeko (la Sachie del precedente Kamome Diner), occhiali da vista e abbigliamento severi, riesce a raggiungerlo sola, trascinando una grossa valigia e non lasciandosi alle spalle null’altro che sabbia. L’ultimo avamposto della civiltà contemporanea è stato infatti da lei abbandonato nel momento in cui è uscita dal piccolo aeroporto e si è incamminata con determinazione verso la propria destinazione vacanziera. Allo stesso modo l’anziana Sakura – san (l’immancabile Motai Masako) aveva poco prima fatto la sua comparsa sull’isola portando con sé unicamente una piccola borsa. Anche lei sembra arrivare dal nulla, ma la sua epifania ha un che di magico e rituale come l’arrivo della primavera. Ogni anno, infatti, ad attenderla trova Yūji e Haruna, i due abitanti dell’isola che ne percepiscono addirittura l’arrivo sentendo passare un aereo. Avvolgendoli in due carrelli semicircolari distinti che continuano l’uno il movimento dell’altro, la Ogigami comincia a tessere con discrezione la trama delle relazioni che si instaureranno fra i suoi curiosi personaggi, come prima aveva fatto con le identiche inquadrature di Taeko e Sakura – san.
Nella piccola ed essenziale locanda, caratterizzata da spazi aperti, materiali naturali (legno, fiori, piante) e tinte pastello, Yūji conduce Taeko in una stanza priva di qualsiasi orpello, dove la donna verrà svegliata più di una volta dal sorridente quanto poco gradito buongiorno mattiniero di Sakura. Sono gli esercizi da quest’ultima ideati, del resto, a dare inizio a ogni singola giornata di primavera. La curiosità di Taeko, che si decide ad abbandonare il letto attratta da una musichetta infantile, è inseguita dalla macchina da presa che si eleva poi alle sue spalle per superare la donna e infine rivelare un panorama mozzafiato: una distesa di sabbia in faccia all’oceano punteggiata di bambini ‘colorati’ che eseguono buffi passi di danza appena accennati, simili a mosse di aikido. Presso l’Hamadaavvengono piccole strane cose, mentre le attività più semplici diventano ardue: poter dormire fino a tardi, trovare qualcosa da mangiare che non sia stata preparata con cura dal gestore, ricevere la valigia in camera. Proprio il bagaglio ingombrante di Taeko (metafora piuttosto scoperta del peso della vita) viene dimenticato infatti sulla sabbia, per poi essere abbandonato definitivamente quando Taeko farà ritorno alla locanda a bordo di un antico triciclo guidato da Sakura. Aveva tentato, Taeko, di cambiare sistemazione, ma uno dei tanti campi/controcampi sul suo volto sbigottito, e su ciò che di bizzarro riservano di volta in volta l’isola e i suoi abitanti, aveva rivelato un casermone senza identità dal nome di Marine Palace e un appezzamento di terreno lavorato con le zappe da clienti ridotti in schiavitù. A tre minuti dall’arrivo al nuovo hotel, la donna copre a passi veloci lo stesso viottolo che aveva visto il suo arrivo. Lunga e accidentata è invece la strada per tornare alla locanda. Come in buona parte del film, dal ritmo lentissimo, il tragitto viene coperto quasi in tempo reale. Tempo della storia e tempo del racconto coincidono infatti qui, come nei tanti momenti in cui si dedica particolare cura alla preparazione del cibo, della granita nel chiosco sulla spiaggia e alla pratica del ‘crepuscolare’ (‘diventare’ il crepuscolo inondati dalla luce della sera). L’insistenza delle ‘scene’, con la loro durata, sembra infatti voler restituire il ritmo lento e rilassante dell’isola, nonché permettere allo spettatore di vivere le sensazioni dei singoli personaggi, in modo da poter ipotizzare i loro pensieri e le loro reazioni, forse addirittura ‘riempire’ del proprio senso gli spazi e i tempi su cui la regista lavora per sottrazione. Persino le domande, frequenti nei pur rari dialoghi fra i personaggi («che rapporto c’è fra Yoji e Sakura?», «perché sei venuta qui, Taeko?», «che cosa succede quando si muore?»), non hanno risposte, o ne trovano di ambigue e approssimative. Le altre battute scambiate fra i personaggi hanno il sapore di detti popolari che scongiurano i guai, di haiku e frasi poetiche da cui si può solo intuire un amore o la sensazione provata in un determinato momento, il desiderio che il mondo finisca se non si è mai stati sull’isola, la voglia di partire per un capriccio sapendo di dover tornare, la noia e l’incanto di lavorare a maglia tessendo anche l’aria, l’obbligo di svolta a destra quando si inizia a sentirsi perduti.
Nel percorso di avvicinamento al “battito” dell’isola, Taeko smette pian piano i suoi abiti – divisa bianchi e neri per indossarne di più morbidi e colorati, abbandona l’iniziale diffidenza, si impegna con convinzione negli esercizi fisici, siede a tavola con i suoi compagni e gusta il cibo preparato con lentezza e cura, ormai consapevole di quanto sia importante «non avere fretta». Come in Kamome Diner, è il momento del pasto a tavola quello in cui si intessono relazioni profonde fra i personaggi, che vengono qui inquadrati con modalità di ripresa simili: a volte di profilo, a volte a due a due, di spalle (con un efficace scavalcamento di campo), in modo da formare una sorta di quadro nel quadro che incornicia una seconda coppia di personaggi. Naufraghi della vita accomunati dall’uso di occhiali da vista (persino un pupazzetto scacciapensieri ne è dotato), tutti pian piano finiscono per vedere allo stesso modo – non a caso la regista dice di aver scelto il titolo del film dopo aver notato che tutti coloro che vi lavoravano portavano gli occhiali -. Figure piccole in ampi spazi naturali investiti dalla luce brillante (come i piccoli del coro in Barber Yoshino), così appaiono Yūji, Haruna, Taeko, Yomogi, Sakura e i bimbi dell’isola, con una granita senza prezzo in mano, spesso attoniti di fronte all’oceano del quale a tratti sembra di assumere il punto di vista e al quale non si può che fare ritorno.
Nascosta fra le pieghe dei rapporti fra personaggi indimenticabili, la trama esilissima si fa specchio della discrezione dei movimenti di macchina, della musica (un violoncello su un tappeto di archi) e dei silenzi di cui sempre si sostanzia il cinema della Ogigami. [Manuela Russo]