Riflessioni sull’uso dei colori in KOTOKO
Attenzione: il presente articolo contiene spoiler
L’opus cinematografico che Tsukamoto Shin’ya è andato a creare nei più di vent’anni di attività, si è sempre caratterizzato per un’attenzione ed una cura estrema per la fotografia e l’uso e la scelta dei colori.
KOTOKO, l’ultima fatica del regista di Tokyo premiato a Venezia l’anno scorso nella sezione Orrizzonti, è in questo senso un lavoro che riassume e magnificamente corona questo approccio cinematografico di Tsukamoto. Il film si apre, come già il bellissimo inizio di Bullet Ballet, con una schermata nera accompagnata dal suono delle onde e dal canto di KOTOKO. Segue un’inquadratura di una spiaggia e del mare dove la protagonista bambina sta danzando e cantando. Questa scena è tutta “dipinta” in una luce blu, resa quasi argentata dal riflesso del sole calante (o sorgente) sull’acqua. Benchè il canto sia dolce, le immagini hanno quasi una tonalità metallica, fredda, tanto più quando un grido insopportabile irrompe sulla scena, un vero e proprio attacco sonoro allo spettatore che prelude all’uso “shoccante”, nel senso letterale della parola, dei suoni che è una delle caratteristiche principali di tutto questo film, molto più che nei primi lavori del regista.
Probabilmente meno di un minuto ed ecco che dalla scena del mare si stacca un immagine dove compaiono macchie rosse e gialle su sfondo verde, quasi un quadro astratto sulle prime, in realtà dopo alcuni secondi si capirà che sono dei fiori ripresi fuori fuoco con un lieve ondeggiare della macchina da presa. Colori caldissimi che emanano calma, tepore e rotondità, le macchie/fiori sfuocate non hanno contorni ben definiti, ci ricordano l’uso del colore in alcuni quadri di Paul Klee e creano uno scarto così pieno di significati con la precedente scena, colori aguzzi, quasi taglienti che rappresentano forse uno degli incipit migliori del cinema del nostro.
Un contrasto che contiene germinalmente tutto ciò che si svilupperà in seguito nella pellicola, i colori freddi e l’uso del controluce e quindi della luce abbagliante ritorneranno spesso nei momenti in cui la psiche di KOTOKO cede sotto la pressione del panico e della paura, un orrore primordiale che viene da fuori, per invadere fin nel profondo l’individualità della ragazza. In una delle scene più allucinate e deliranti del film, KOTOKO si crede (?) attaccata da Tanaka (lo stesso Tsukamoto), tramortita, rinchiusa in un sacco di plastica e ripetutamente colpita a sangue; questi pochi minuti sono caos totale, la macchina da presa impazzisce quasi come se fosse lei stessa ad essere attaccata, e lo schermo diventa un guazzo di colori freddi. In questa cacofonia di immagini, per una frazione di secondo vediamo Tanaka aprire violentemente la porta illuminato da dietro, ma, ancora una volta è una luce tanto abbagliante quanto fredda che gli dà un aspetto privo di contorni e alieno. Un bagliore quasi demoniaco che viene dal di fuori quindi ma, essendo lo stesso che rivediamo nel riflesso del mare all’inizio e ricollegandosi ad una frase che la stessa ragazza pronuncia più volte “il mare è il luogo da dove proveniamo”, ci suggerisce come l’esterno e l’interno si rivoltino continuamente e perdano i loro connotati. La stessa freddezza dei colori la si ritrova poi nella scena del soldato/cecchino, che tutto bardato in uniforme e casco scuro, dapprima appare in televisione per poi irrompere nella realtà (di KOTOKO) nella scena più ansiogena e tragica del film, quando al bambino che gioca viene sparato in faccia.