Katawara, san-gatsu jūichi-nichi kara no tabi (傍 -かたわら 3月11日からの旅)
Katawara, san-gatsu jūichi-nichi kara no tabi (傍 -かたわら 3月11日からの旅 ). Regia, montaggio: Ise Shinichi. Fotografia: Miyata Hachirō. Produzione: IseFilm. Durata: 110′. Anno: 2012
Il cameraman Miyata Hachirō a quattro giorni dal disastro del 11 marzo, si precipita nella cittadina di Watari nella prefettura di Miyagi per assicurarsi delle condizioni del suo amico cantautore Tomabechi Satoro. Dopo alcune settimane lo raggiunge anche il regista Ise Shinichi. Nel posto Tomabechi assieme alla moglie gestiscono una radio, FM Aozora (FM cielo azzurro) in un prefabbricato d’emergenza che trasmette le notizie relative alla tragedia attraverso degli autoparlanti, per molti mesi l’unica fonte d’informazioni pratiche per gli abitanti del luogo. La videocamera rimarrà con la famiglia dell’amico e con gli abitanti della cittadina per un anno, fino alla primavera del 2012, documentando la difficile ricostruzione e gli sforzi per trovare la volontà di andare avanti.
Cameraman e regista si recheranno anche nella prefettura di Fukushima dove abitava un altro loro amico, morto nella tragedia che ha lasciato sola la moglie col dolore e con il difficile problema delle radiazioni.
Ise Shinichi, virtualmente sconosciuto al di fuori del mondo documentario giapponese, è un autore che ha realizzato una serie di opere abbastanza importanti, almeno per quanto concerne il genere a cui si dedica. Ricordiamo almeno i suoi documentari sulla nipote Nao, epilettica e con gravi problemi mentali, che abbracciano un arco di tempo di più di vent’anni ed il recente Daijōbu. Shōnikai Hosoya Ryōta no kotoba, al primo posto della classifica 2011 nella categoria bunka eiga stilata dalla prestigiosa rivista cinematografica Kinema Junpō. Una piccola divagazione sul termine bunka eiga: di solito s’intende il termine come sinonimo di documentario ma letteralmente significa film di cultura, donando quindi alla categoria una sfumatura diversa, molta importanza viene data al tema scelto, all’approccio, alla capacità di sondare zone oscure o poco conosciute della società, anche a discapito della pura resa visiva dell’opera. I vincitori degli ultimi due anni, il già citati Daijōbu lo scorso anno e Shōji to Takao nel 2010 ne sono in questo senso una conferma.
Ma ritorniamo ora al film qui in analisi. Ciò che a nostro avviso distingue il lavoro di Ise dagli altri registi che fin’ora hanno affrontato il disastro del marzo 2011, almeno fino ad ora, è il suo approccio verso il passaggio del tempo, la bravura nel costruire un documentario che riesca a trasmetterci, il dramma, le difficoltà e le speranza degli abitanti della zona nel loro intrecciarsi con il passare delle stagioni. Spesso, fin dalla lunga scena iniziale, l’occhio della videocamera si sofferma sul mare e sulla sia risacca circolare, elemento che per la popolazione del luogo è sia vita, l’economia si basa fondamentalmente sulla pesca, sia putroppo con il disastro del 2011, simbolo di devastazione e morte. Come già nel precedente lavoro del regista ritornano poi molte volte le immagini della luna, compresa l’eclissi della scorsa estate, l’astro è poi anche il protagonista della canzone scritta e cantata da Tomabechi durante il film sulla spiaggia.
Al contrario che in altri documentari della prima ora qui le immagini di distruzione causate dallo tsunami sono sì presenti ma non in maniera ossessiva e predominante. Molta parte del film è dedicata alle conversazioni dentro la famiglia del musicista e alle parole che assieme a sua moglie lanciano giornalmente dalla loro radio. Strazianti ma necessari sono i momenti, che si ripetono un paio di volte nel corso del documentario, quando Tomabechi, la moglie ed anche il cameraman stesso, leggono e diffondono attraverso gli autoparlanti (successivamente attraverso l’etere) i nomi degli abitanti deceduti e la zona della città da dove provenivano. Sono questi attimi che riescono a trasmetterci, lontani dall’attrazione perversa verso la potenza distruttiva che si emana dal paesaggio di macerie, il dramma vero che ha spezzato e portato via moltissime vite. Capiamo in queste liste di morte il valore di ogni singola persona, le storie e la memoria che vanno perse con loro e, nei casi più strazianti dei bambini e degli adolescenti, le possibilità future negate. A metà dell’opera regista e cameraman si recano a far visita ad un amico nella prefettura di Fukushima, qui scoprono che purtroppo l’uomo è morto lasciamdo la moglie da sola. La donna, ancora nei suoi quaranta, li conduce nei campi e nel bosco che la coppia aveva deciso di curare dopo essersi trasferita dalla città alla campagna. Funghi, piccoli animali ed una natura rigogliosa e davvero mozzafiato hanno perso tutta la bellezza, distrutta dall’invisibile nemico delle radiazioni, queste sono le parole amare che la donna pronuncia guidando i due in mezzo alla natura selvaggia.
Una delle parti più intense il film la raggiunge quando durante l’ obon in agosto, il periodo dedicato al culto dei defunti, ognuna delle persone che ha perso un proprio caro si reca di sera alla spiaggia di Watari. Qui su ogni piccola barchetta di legno viene messa una lanterna di carta sul cui esterno ognuno scrive il suo messaggio verso la persona persa nel disastro. “Grazie di tutto” “Scusa se sono rimasto vivo” o ancora “Scusa se non ti ho salutato” sono sono alcuni dei messaggi che con il lieve moto del mare si allontanano nel buio della notte scura illuminata solo dalla pallida luna. [Matteo Boscarol]