Kaien hoteru buru ( 海燕ホテルブルー, Petrel Hotel Blue)
Kaien hoteru buru (海燕ホテルブルー, Petrel Hotel Blue). Regia: Wakamatsu Kōji. Soggetto: dal romanzo di Funado Yoichi. Sceneggiatura: Wakamatsu Kōji, Kurosawa Hisako. Fotografia: Mitsuwaka Yūsaku, Tsuji Tomohiko. Montaggio: Sakamoto Kumiko. Scenografia: Nozawa Hiromi. Musiche: Jim O’Rourke. Interpreti: Iura Arata, Kanako Higashi, Hirosue Hiromasa, Jibiki Gō, Katayama Hitomi, Maki Megumi, Mizukami Ryūshi, Nakazawa Seiroku, Okabe Nao, Shibukawa Kiyohiko, Uda Takaki, Yamaoka Hajime, Ônishi Shima. Produttori: Ozaki Noriko, Wakamatsu Kōji, Ôhinata Norifumi, Ôtomo Asako. Durata: 85′. Uscita nelle sale giapponesi: 24 marzo 2012.
Tre amici decidono di svaligiare un furgone portavalori e tentare così il colpo della vita. Uno di loro però decide di rinunciare per stare vicino alla sua donna ed un altro al momento topico, quando i due fermano il veicolo, se la dà a gambe levate. Rimasto da solo il ragazzo (Jibiki Gō) viene catturato e sconta 7 anni di prigione dove conosce un delinquente (Arata) che gli diviene amico. Uscito di prigione l’uomo cerca vendetta cercando i due ex-compagni e finisce per artivate in riva al mare dove uno dei due “traditori” gestisce un hotel assieme ad una giovane ed affascinante donna con cui vive. In questo misterioso luogo arriverà anche il galeotto conosciuto in prigione per proporgli “il colpo del secolo”.
Presentato in anteprima mondiale alla Japan Society di New York agli inizi di marzo ma girato circa un anno prima (in una settimana circa) subito dopo il film su Mishima (11:25 TheDay He Chose His Own Fate), Petrel Hotel Blue rappresenta un ritorno di Wakamatsu allo stile ed all’approccio cinematografico che lo ha reso celebre negli anni sessanta. Ciò che colpisce fin da subito è l’uso espressionista del colore, durante il tentativo di furto del furgone portavalori da parte dei due ladri vediamo infatti una bambina che per caso si trova a passare di là con in mano un ombrello viola, colore che spicca come una macchia nel grigiore circostante. Lo stesso ombrello, apparentemente senza alcun legame, ritorna poi nei pressi dell’hotel in riva al mare, qui è l’avvenente ragazza vestita di bianco a portarlo, la donna che è il fulcro su cui gira l’intera narrazione/sogno che è questo film.
Questa ragazza che non parlerà per tutta la durata dell’opera se non nell’ultima scena, o siede nel bar dell’hotel fumando ostentatamente una sigaretta, oppure si aggira vestita di bianco, scene dove il ralenty è davvero abusato fin quasi ad irritare, o ancora la vediamo nuotare nuda in una piscina all’aperto, scene completamente immerse in un filtro rossastro e irreale. Oppure nelle vicinanze dell’albergo dove il terreno è costituito da una sabbia scura punteggiata da pochi e sparsi cespugli, macchie di colore verde su sfondo nero, la vediamo correre completamente nuda inseguita dal protagonista, scene la cui aurea viene data dall’ottima musica di Jim O’Rourke, ex Sonic Youth, ammiratore di lungo corso di Wakamatsu e che già aveva collaborato a United Red Army.
Sono queste scene oniriche? O sono forse reali? Risposta non ci è data e tutto il film, secondo le dichiarazioni dello stesso Wakamatsu, andrebbe affrontato come un lungo sogno circolare. La spirale, il cerchio, è uno dei simboli che ritornano spesso, il già citato ombrello, la risacca monotona del mare e anche la scala attraverso cui si giunge al bar dell’hotel che si avvita su sé stessa. Sono simboli del destino del personaggio interpretato da Jibiki Gō le cui scelte e azioni sembrano essere l’esatta copia di quelle fatte dal suo compagno “traditore” che ha abbandonato l’assalto al furgone per restare con la propria donna. Rifare gli stessi errori, non riuscire a cambiare, sembra una maledizione quella dei protagonisti del film e per esteso quella della vita del genere umano in toto. Un muoversi circolare per fallire continuamente che ritroviamo nello stesso Mishima del film precedente, o nei membri della Sekigun di United Red Army, o ancora nel prigioniero del film blanchiano dell’amico Adachi Masao, The Prisoner. Ma Wakamatsu sembra amare questi falliti e idioti, “orokana hitotachi” come vengono chiamati dalla donna verso la fine del film, nelle uniche parole che pronuncia. Di questo folle e stupido girare su sè stessi quasi a vuoto, la ragazza, che è anche la bambina dell’inizio e allo stesso tempo un’ anziana donna che dà informazioni ai viandanti, rappresenta il fulcro immobile centrale, onirico e quasi sacro. È lei che fa girare l’ombrello parasole viola ( ricordiamo che questo colore in Giappone rappresenta nobiltà, anche di spirito) sul suo manico ed è ancora lei che nell’ultimissima scena del film si denuda e sparisce in una statua di una divinità femminile del luogo.
All’interno del film c’è spazio anche per il consueto odio verso la polizia, anche qui bistrattata e derisa, e per una scena in cui un giovane avventore del bar si scaglia contro l’incidente nucleare (di Fukushima) guardando assieme alla femme fatale di cui sopra direttamente in camera da presa alla maniera di J.P.Belmondo.
Film decisamente interessante questo Petrel Hotel Blue anche se in qualche momento trasuda il basso budget con cui è stato realizzato, un ritorno alle origini come si diceva, certo non siamo al livello dei capolavori della seconda metà dei sessanta però rimane un lavoro divertente, un po’ macchinoso è privo di stile nella prima parte e decisamente più brillante nella seconda, quando cioè la narrazione esplode per lasciar posto al delirio dei colori, dei corpi nudi e del suono delle onde. Per chi conosce bene tutta l’opera di Wakamatsu sarà inoltre un divertentimento in più ritrovare le tantissime scene simili a quelle presenti nelle sue prime opere.
Per dare un’idea dell’atmosfera in cui il film è stato girato, un’atmosfera che necessitava di essere leggera dopo l’impegno nervoso di staff e cast del film su Mishima, basti dire che i vestiti indossati da Arata e da Jibiki, sono quelli dello stesso Wakamatsu che ha portato i due davanti al suo armadio dicendogli “prendete quello che volete!”. [Matteo Boscarol]