Sōseiji (双生児, Gemini)
La X edizione dell’Asian Film Festival di Reggio Emilia (16-24 marzo 2012) ha dedicato la retrospettiva annuale a Tsukamoto Shin’ya, che ha ricevuto un premio alla carriera. In occasione di tale evento, Sonatine ha pubblicato le schede critiche di tutti i film di Tsukamoto, che configurano uno Speciale Tsukamoto sempre consultabile online.
Sōseiji (双生児, Gemini). Regia, sceneggiatura, fotografia e montaggio: Tsukamoto Shin’ya. Soggetto: Edogawa Ranpo. Musica: Ishikawa Tadashi. Interpreti e personaggi: Motoki Masahiro (Sutekichi Yukio), Ryō (Rin), Tsutsui Yasutaka (Shigefumi), Maro Ataji (Kakubei), Ishibashi Renji (il mendicante), Asano Tadanobu (l’uomo con la spada). Produzione: Sedic International. Durata: 84’. Anno di produzione: 1999
Fine del periodo Meiji. Yukio è un famoso medico che vive nella casa dell’agiata famiglia con la moglie Rin, conosciuta sulle rive di un fiume, che non ricorda nulla del suo passato. Improvvisamente, gli anziani genitori di muoiono in misteriose circostanze: causa delle morti è il ritorno di Sutekichi, fratello gemello di Yukio, abbandonato subito dopo il parto in conseguenza di una malformazione fisica (una voglia a forma di serpente su una gamba) e cresciuto ai margini della città, fra povertà e delinquenza. Yukio è segregato in un pozzo da Sutekichi, che ne prende il posto accanto a Rin, sua compagna di vita prima di sposare il fratello. Yukio riesce, però, a riconquistare il suo ruolo familiare e sociale, mentre Rin dà alla luce un bambino.
A prima vista Sōseiji fatica a inserirsi nella filmografia di Tsukamoto. La dislocazione del racconto, che si svolge nel passato e, quindi, lontano dall’usuale ambientazione nella tecno-metropoli, sottrae all’opera tutta l’inospitalità del consueto fondale di vetro e cemento. Il ricorso alla camera a mano e ai velocissimi movimenti di macchina è meno frequente che altrove, concentrandosi nei soli momenti di maggior tensione drammatica; la colonna sonora di genere industrial è sostituita dal ripetersi di un motivo ipnotico ed evocativo, in qualche modo primordiale. Si ha così l’impressione di trovarsi in una parentesi creativa più tradizionale, aperta dall’autore per concentrare l’attenzione sull’oggetto della narrazione, piuttosto che sul modo in cui la storia è raccontata.
A ben vedere, invece, si tratta di opera assai coerente con la poetica dell’autore. Il suo intento dichiarato è quello di «descrivere fisicamente l’idea di due forze contrarie che coabitano in uno stesso corpo»: e il corpo è il vero cuore pulsante del cinema di Tsukamoto, prima ancora del rapporto fra uomo e ambiente urbano e fra uomo e macchina. La fisicità diviene veicolo dello status sociale, con l’abbigliamento sobrio di Yukio e quello tradizionale dei suoi genitori che si contrappongono agli stracci multicolorindossati da Sutekichi e dagli altri abitanti dello slum – brandelli di tessuto postatomico o bozzolo di uno sviluppo intermedio. Gli abiti, ancora, a recare un vantaggio competitivo (Yukio non esita a curare un notabile della città, piuttosto che una mendicante e il suo bambino). Corpo, quindi, come matrice identitaria, segno d’appartenenza e accettabilità sociale: tanto che Yukio non si avvicina alla futura moglie fino a quando non la vede indossare il kimonoe con i capelli – prima una criniera – irrigiditi in una shimada così studiata da apparire aliena (ma pronta a scomporsi, in segno dissociativo, quando Rin contesterà a Yukio di non aver voluto curare gli abitanti della baraccopoli). Corpo quale vero e proprio teatro del racconto, con le mutilazioni a ricordare il passato (un paziente di Yukio ha perso un braccio in guerra; Sutekichi fu abbandonato dai genitori a causa del suo difetto fisico), rendere manifeste le unioni (Rin si procura un’ustione simile alla malformazione dell’amato Sutekichi) e la partecipazione alla medesima specie (le sopracciglia rasate dei tre protagonisti).
L’eccezione genetica dei gemelli svolge allora un tema vicino a quello dell’ibridazione cyberfleshche, nella serie Tetsuo, porta la macchina a compenetrare l’uomo, con i modelli comportamentali di stampo borghese (la civiltà, il progresso) a fondersi nelle pulsioni primordiali (la sopravvivenza, l’animalità). E non siamo troppo lontani dal conflitto fra repressione e liberazione della pulsione sessuale che vivrà Rinko Tatsumi nel successivo A Snake of June. I temi ricorrenti sono sempre il dualismo fra istinto innato e modello indotto, la loro problematica compresenza, la necessità di una composizione.
La continuità del discorso autoriale di Tsukamoto, allora, passa per una nuova declinazione dei suoi elementi tipici. Quello urbanistico, ad esempio, trova modo di esprimersi – e di comunicare senso – nella costruzione della casa di Yukio, perfetta rappresentazione architettonica della claustrofobica costrizione (e costruzione) sociale della famiglia dei gemelli: la messinscena deprime il carattere fluido e aperto della tradizionale abitazione giapponese, mostrando un ambiente statico, progenitore della casa ipermoderna e asettica di A Snake of June. L’azione è raggelata, con la rete delle relazioni familiari affidata agli sguardi e ai bisbigli: spesso i personaggi si danno le spalle, oppure sono ripresi soli e immobili, in una condizione di quiete tutta esteriore, autoimposta.
La staticità del mondo di Yukio trova evidenza nelle scelte di montaggio (di genere classico, con inquadrature fisse, trattenute per non pochi secondi) e, per antagonismo, nell’improvviso movimento di un personaggio (le veloci movenze della domestica che lucida il pavimento della veranda; il movimento circense con il quale Sutekichi fugge dalla casa paterna) e nelle frequenti scene di danza, che anticipano un motivo ricorrente nel cinema di Tsukamoto (si pensi a Vital o Kotoko).
Il segno caratteristico di Sōseiji, allora, è la sua costante dialettica fra due poli, apparentemente lontanissimi, ma in realtà compenetrati. Le distinzioni personali e sociali possono così facilmente scomparire (Rin non sembra distinguere i due gemelli e certamente li confonde quando Sutekichi nasconde la sua voglia a forma di serpente), così come le ragioni della compostezza convivono con quelle della violenza (per uccidere l’uomo con la spada, Sutekichi usa come pugnale uno dei kanzashi che reggono l’elaborata pettinatura di Rin).
È necessario, allora, un punto d’equilibrio fra Yukio e Sutekichi, che renda possibile la convivenza fra civiltà e istinto primordiale. Il fulcro della storia sta allora in Rin, personaggio dapprima apparentemente subordinato, poi enigmatico e infine vincente quando diventa madre, sintetizzando gli opposti e assicurando la prosecuzione di un’umanità figlia di padre incerto.
[Gianpiero Chieppa]