Ichimai no hagaki (一枚のハガキ, Post Card)
Ichimai no hagaki (一枚のハガキ, Post Card). Regia, soggetto e sceneggiatura: Shindō Kaneto. Fotografia: Hayashi Masahiko. Interpreti: Toyokawa Etsushi, Ōtake Shinobu, Ōsugi Ren, Emoto Akira, Baisho Mitsuko, Naomasa Musaka, Maro Akaji. Produttore: Shindō Jirō. Durata: 114. Uscita nelle sale giapponesi: 6 agosto 2011.
Link: Sito ufficiale – Mark Schilling (Japan Times) – Catherine Munroe Hotes (Nishikata Film Review) – Nicholas Vroman (a page of madness)
Punteggio ★★★★
Verso la fine della seconda guerra mondiale cento soldati di mezza età vengono mandati al fronte in base a un sorteggio. La notte prima della partenza, Sadazo (Naomasa Musaka) consegna al suo camerata Keita (Toyokawa Etsushi) una cartolina che la moglie Tomoko (Ōtake Shinobu) gli aveva spedito, pregandolo di riconsegnarla alla moglie in caso lui non torni; almeno lei potrà sapere che lui l’ha letta. La cartolina diceva: “Oggi c’è la festa del paese ma l’aria è vuota senza la tua presenza”. Sadazo muore. I suoi anziani genitori (Emoto Akira e Baisho Mitsuko) chiedono alla moglie di restare con loro e le propongono di sposare il fratello minore di Sadazo. Lei accetta, senza un’ombra di emozione, per puro senso di un ineluttabile dovere socio-culturale e totale assenza di alternative. Anche il secondo marito scompare in guerra, il padre ne muore di dolore e la madre si suicida. Tomoko resta sola, senza protezione, né affetto.
Finisce la guerra. Keita, uno dei sei sopravvissuti di quei cento soldati, torna a casa senza che ci sia nessuno ad aspettarlo: la moglie, pensandolo morto, è diventata la donna di suo padre e fa la cantante in un night club. Disgustato dalla pace più ancora che dalla guerra, Keita decide di andare in Brasile alla ricerca di un qualche futuro e, sulla strada della partenza, pensa di far visita a Tomoko per onorare l’impegno con il vecchio compagno d’armi. Inizialmente il sentimento di Tomoko verso colui che è sopravvissuto, mentre il marito è morto, è di odio, ma gradualmente fra le due anime ferite senza più passato né futuro nasce un’interesse sincero.
La storia di Keita non è inventata, al contrario è la storia personale di Shindō, che, come ci ricorda Mark Schilling, è stato realmente uno dei sei sopravvissuti di quell’episodio storico.
Fra tragedia greca e teatro popolare giapponese, un notevole film classico e contemporaneo al contempo. Shindō, da un lato controlla magistralmente un mix di registri – la prima parte con le scene ieratiche delle partenze per la guerra e dei ritorni delle ceneri; la fissità senza futuro di Tomoko la prima di notte di nozze con il fratello minore del defunto; la seconda parte è più teatrale con gli scambi serrati di battute tra Keita e Tomoko o l’incontro a pugni fra i due maschi per guadagnarsi la femmina. Dall’altro, introduce tocchi di innovazioni stilistiche che colpiscono come una lama: la luce orizzontale che illumina il bianco delle casacche dei soldati che partono per la morte (rivisitazione stilizzata dell’estetica dei film dell’epoca) o la grottesca e sinuosa danza del serpente. Una maestria che non è mai fine a se stessa ma al servizio di una drammatizzazione sempre alta, laddove la guerra vale anche simbolicamente come ciò che cancella le speranze e la natura umana, quella natura che cerca però ogni volta di risollevarsi.
Finisce la guerra. Keita, uno dei sei sopravvissuti di quei cento soldati, torna a casa senza che ci sia nessuno ad aspettarlo: la moglie, pensandolo morto, è diventata la donna di suo padre e fa la cantante in un night club. Disgustato dalla pace più ancora che dalla guerra, Keita decide di andare in Brasile alla ricerca di un qualche futuro e, sulla strada della partenza, pensa di far visita a Tomoko per onorare l’impegno con il vecchio compagno d’armi. Inizialmente il sentimento di Tomoko verso colui che è sopravvissuto, mentre il marito è morto, è di odio, ma gradualmente fra le due anime ferite senza più passato né futuro nasce un’interesse sincero.
La storia di Keita non è inventata, al contrario è la storia personale di Shindō, che, come ci ricorda Mark Schilling, è stato realmente uno dei sei sopravvissuti di quell’episodio storico.
Fra tragedia greca e teatro popolare giapponese, un notevole film classico e contemporaneo al contempo. Shindō, da un lato controlla magistralmente un mix di registri – la prima parte con le scene ieratiche delle partenze per la guerra e dei ritorni delle ceneri; la fissità senza futuro di Tomoko la prima di notte di nozze con il fratello minore del defunto; la seconda parte è più teatrale con gli scambi serrati di battute tra Keita e Tomoko o l’incontro a pugni fra i due maschi per guadagnarsi la femmina. Dall’altro, introduce tocchi di innovazioni stilistiche che colpiscono come una lama: la luce orizzontale che illumina il bianco delle casacche dei soldati che partono per la morte (rivisitazione stilizzata dell’estetica dei film dell’epoca) o la grottesca e sinuosa danza del serpente. Una maestria che non è mai fine a se stessa ma al servizio di una drammatizzazione sempre alta, laddove la guerra vale anche simbolicamente come ciò che cancella le speranze e la natura umana, quella natura che cerca però ogni volta di risollevarsi.
Dopo Fukushima il tema del risorgere, del ritrovare i valori di base come la famiglia, del ricostruire un progetto di vita sono stati il leit motiv di tanta produzione artistico-culturale, dai finali modificati, anche se un po’ posticci, di Himizu e River, agli ultimi, notevoli, asadora (drama del mattino) dell’NHK come Ohisama, Carnation e Umechan sensei. Mai come questo film, però, che pure non è un film sul terremoto, si percepisce concretamente la forza disperata di voler riprendere a vivere e allo stesso tempo, a fugare ogni traccia di retorica, che la vita è una lotteria, sia che essa riguardi l’andare al fronte a morire o il trovare la persona giusta con cui condividere un pezzo di vita. [Franco Picollo]