Shokuzai (贖罪 – Atonement) – Episode 4
Una bambina torna a casa da scuola. Si tratta di Yuka. Cerca di attirare l’attenzione della madre, che però sembra essere assorbita dalle cure alla sorella Mayu, una ragazzina malaticcia.
Nel giardino della scuola la piccola Emiri sta giocando con una bambola. Poco dopo un gruppo di cinque bambine si trova in uno spiazzo, mentre un uomo, ripreso di spalle, le osserva. Lo sconosciuto si avvicina e chiede il loro aiuto per un lavoro che dice di dover fare. Emiri si lascia convincere e si allontana con lui. Le amiche più tardi trovano il suo corpo senza vita nella palestra della scuola. Mentre Akiko corre dalla madre di Emiri, Sae rimane nel luogo del ritrovamento e Maki va a cercare una delle maestre, Yuka si precipita al posto di polizia. Uno dei poliziotti fa salire con lui la bambina in bicicletta, per recarsi sul luogo del delitto. Quando torna a casa, Yuka ha un alterco con la sorella, mentre la madre non le vede, perché alla figlia ammalata sembra che verrà regalata la bambola che desiderava per sé. Torna allora al posto di polizia, con l’intento di incontrare il giovane poliziotto da cui è affascinata. A casa di Asako, la madre di Emiri, le quattro ragazzine vengono maltrattate dalla donna, che dice loro che non le perdonerà fino a quando non riusciranno a ricordare il volto dell’uomo che ha rapito e ucciso Emiri.
Quindici anni dopo, Yuka gestisce un negozio di fiori. Il titolare del negozio è Noguchi che, nonostante sia sposato, ha una relazione con lei. La ragazza si reca una sera a cena a casa della sorella, portando i fiori per il primo anniversario del matrimonio di questa con Keita: durante la serata non perde occasione per avvicinarsi a lui mentre la sorella è occupata, chiede all’uomo perché ha sposato Mayu che da piccola era sempre ammalata e per giunta non può avere figli, e insiste per incontrarlo in privato. Una sera in cui la sorella è assente, Yuka va a casa della coppia, prepara la cena per Keita e poi passa la notte con lui. Qualche tempo dopo scopre di essere incinta.
Arriva al negozio una lettera di Asako, nella quale la donna accenna ai drammatici eventi che hanno visto coinvolte le amiche di Yuka: Sae, Maki e Akiko. Sostiene peraltro di averla perdonata e le dice che vorrebbe vederla. Prima di incontrare Asako, un giorno casualmente Yuka vede alla televisione un uomo che parla di un incidente occorso in una scuola e riconosce la voce dello sconosciuto che aveva avvicinato lei e le amiche nel parco tanti anni prima. Quando si reca all’incontro con Asako, dice alla donna che ha una traccia per trovare l’assassino di Emiri, ma vuole barattare l’informazione con il marito di Asako: desidera in sostanza che questi divorzi dalla moglie e sposi lei. Intanto Mayu, immaginando che suo marito sia il padre del bambino di Yuka, tenta il suicidio. Yuka si fa convincere da Keita ad andare a trovare la sorella per rassicurarla del contrario, ma in quella stessa occasione cerca di abbracciare l’uomo. Lui la rifiuta violentemente e lei, allora, lo spinge giù da una scala uccidendolo. Tempo dopo Asako va a trovarla, Yuka ha avuto il bambino e si è ripresa. In quell’occasione la ragazza le svela l’informazione sull’assassino di Emiri, dicendole di non averlo rivelato alla polizia, perché decida lei, Asako, se vendicarsi o meno.
Yuka è affascinata dai poliziotti perché, come svela lei stessa a Keita, avrebbe voluto sposarne uno per «essere accettata e protetta». E come darle torto, posto che il mondo nel quale il regista inserisce la sua protagonista è dominato da inquietudini profonde, metaforicamente rappresentate da ombre nere: una, nelle primissime inquadrature, si allunga sul pavimento della stanza che la ragazzina deve attraversare per raggiungere la madre. Oscure presenze danzano macabre sui muri del corridoio che porta alla palestra nella quale le quattro bambine hanno trovato il cadavere della compagna di scuola. Sulle pareti dell’appartamento della sorella, poco prima che Yuka le uccida il marito spingendolo giù da una scala, la luce riflette le sagome deformate del suo corpo e di quello dell’uomo.
Il male del passato sembra aver creato nel presente un profondo vuoto, dotato di una intensa forza di attrazione nei confronti di ciò che lo circonda. Yuka vuole tutto quello che ritiene le sia stato negato: la bambola che non ha avuto e che invece è stata probabilmente acquistata per la sorella, si trasforma da adulta nel marito-giocattolo di Mayu che con caparbia ostinazione seduce, quasi sotto gli occhi di lei. Anche l’informazione sull’assassino, ha come unica merce di scambio l’uomo di un’altra donna, in questo caso il marito di Asako. Yuka vuole tutto ciò che è “proprietà” di quelle figure femminili che nel suo passato risultavano vincenti. La ragazza è chiusa nella propria gabbia esistenziale, ferma ad una fase infantile di apprensione, bloccata in un’evoluzione che l’ha resa un’adulta-bambina malefica e vendicativa, che non esita ad uccidere nel momento in cui viene rifiutata.
Nel percorso della storia, la “fame” di quel vuoto mostruoso riesce ad essere placata solo da un’altra morte, quella di Keita, e, infine, dall’impulso di vita: il figlio “strappato” alla sorella e al quale, ancora nel suo grembo, confida: «hai colmato i miei vuoti». Il finale sembra confermare che la donna, superato il blocco della propria evoluzione, è finalmente in grado di donare: ne è conferma il suo rivelare ad Asako, durante il loro ultimo incontro, la sua scoperta in merito all’identità dell’assassino della piccola Emiri. E allora il titolo stesso dell’episodio, “Nove mesi”, pare ribadire che la vera espiazione di Yuka avvenga a seguito di quei nove mesi di gestazione del figlio, dopo i quali potrebbe rinascere in un certo senso liberata dalle oscure propaggini del passato.
Il regista segue i personaggi, li osserva, costruisce i loro sguardi obliqui. La macchina da presa alterna movimenti lenti in cui percorre lo spazio claustrofobico nel quale si trovano (quell’appartamento con soppalco di Mayu, che comprime le figure in spazi angusti) ad altri repentini, come quando si sposta velocemente da Keita, sceso dalla scala interna dell’appartamento a Yuka, rimasta sopra, ma che di li a poco lo seguirà. Il personaggio di Ikewaki Chizuru, l’attrice che interpreta Yuka da adulta, sempre dimessa nell’abbigliamento e poco curata, in confronto per esempio alla sorella Mayu, rivela con grande intensità, tramite gli occhi e l’espressione enigmatica del volto, tutto il travaglio interiore del suo personaggio. Allo stesso modo la sorella, che il regista riprende nelle inquadrature di apertura con un volto che esprime la consapevolezza della propria superiorità psicologica nei confronti di Yuka, la ritroviamo in primi piani di puro sgomento, nel momento in cui sospetta che il marito l’abbia tradita proprio con la sorella, e la sua diventa l’espressione di una vittima sacrificale.
Il mondo che Kurosawa offre allo spettatore, e che rispecchia quello ideato dalla scrittrice del romanzo, è un intreccio di relazioni disfunzionali, che affondano le radici nel passato ed esplicano tutti i loro venefici effetti nel presente. In un quadro del genere, morte e vita, come si diceva, si giocano la partita del chiudere i conti con il pregresso anche se, ed è la sensazione che si ha al termine della visione, quella frase finale di Yuka: «Non guardo più al passato», pare in fin dei conti più una dichiarazione di intenti, che non una effettiva presa di coscienza della situazione reale. [Claudia Bertolè]