Za majikku awā (ザ・マジックアワー, The Magic Hour)
I migliori film del cinema giapponese dal 2000 a oggi scelti dalla redazione di Sonatine
Za majikku awā (ザ・マジックアワー, The Magic Hour). Regia e sceneggiatura: Mitani Kōki. Fotografia (colore): Yamamoto Hideo. Scenografia: Taneda Yōhei. Montaggio: Ueno Sōichi. Costumi: Utsunomiya Ikuko. Musica: Ogino Kiyoko. Interpreti e personaggi: Tsumabuki Satoshi (Bingo), Kōichi Satō (Murata Taiki), Fukatsu Eri (Mari), Nishida Toshiyuki (Teshio, il boss), Kohinata Fumiyo (Hasegawa, l’agente), Terajima Susumu (Kurokawa Hiromi), Ayase Haruka (Natsuko), Ibuki Goro (il barman), Toda Keiko (Madame Ranko), Kōmoto Masahiro (Ōta), Kagawa Teruyuki (Jun), Asano Kazuyuki (Dr. Shimizu), e con la partecipazione di: Ichikawa Kon, Yamamoto Kōji, Amami Yūki, Nakai Kiichi, Tanihara Shōsuke, Suzuki Kyōka, Horibe Keisuke, Karasawa Toshiaki, Katori Shingo. Produzione: Kameyama Chihiro, Shimatani Yoshinari per Cine Bazar, Fuji Television, Tōhō. Durata: 136′. Uscita nelle sale giapponesi: 7 giugno 2008.
New York Asian Film Festival 2009: Premio del pubblico come Miglior film. Altri festival: Hong Kong Asian Film Festival 2008, Montreal World Film Festival 2008, Japan Film Festival in Australia 2011.
Bingo, gestore di un night club, viene sorpreso a letto con Mari, ex ballerina, “pupa del boss” della mala cittadina, Teshio. Il suo destino sarebbe di finire in pasto ai pesci ma, sentito che il boss vuole incontrare un certo Della Togashi, si vanta di essere suo amico e di poterglielo presentare. È un bluff, perché non ha nemmeno idea di chi questi sia: un famoso sicario la cui identità è ignota. Bingo sfrutta proprio questo dettaglio per escogitare una soluzione: farà impersonare il sicario a un attore di terz’ordine, Murata Taiki, al quale invece farà credere di volerlo scritturare per un film indipendente, senza copione e con la cinepresa nascosta per esigenze di realismo. Il sogno di Murata è vedersi sul grande schermo nei panni di un impavido eroe come nel film noir in bianco e nero che vede e rivede. Lasciatosi abbagliare dalla prospettiva di essere finalmente protagonista, nonostante lo scetticismo del suo agente, entra fin troppo nella parte di duro e si abbandona a spavalderie e bravate davanti al boss, mettendo in pericolo se stesso e Bingo. Quando la situazione precipit. Bingo è costretto a rivelare tutto a Murata, e insieme sfuggono ai gangster solo grazie all’intercessione di Mari che si offre di tornare insieme al boss in cambio della loro vita. Ma Bingo non sa darsi pace e chiede a Murata di continuare ad impersonare il sicario e aiutarlo a liberare Mari. Murata, che era stato filmato nei panni di Della Togashi con una cinepresa rubata, vede per caso proiettate le riprese, realizzando finalmente il suo sogno. Per aiutare Bingo e Mari, insieme a una troupe di amici inscena un finale spettacolare dove faranno credere al boss di morire tutti. Mari però si accorge di amare Teshio e scappa con lui, mentre il finale orchestrato metterà in fuga il vero Della Togashi, sopraggiunto per uccidere il suo emulo.
The Magic Hour è, innanzitutto, una scoppiettante commedia degli equivoci tenuta insieme da una sceneggiatura millimetrica e da un cast affiatato di star che dà il meglio di sé anche in piccoli ruoli.
Il titolo si riferisce a quel momento della giornata a cavallo del tramonto in cui la luce del sole, meno diretta che nelle altre ore diurne, diventa dorata e morbida, rende caldi i colori e dona alle cose un’eterea aura ultraterrena. È il momento prediletto da molti direttori della fotografia e registi, ma anche il più difficile da cogliere. Qui rappresenta anche il momento magico della propria vita in cui si è al meglio e in cui si presentano le opportunità migliori. Niente paura se sfugge, ci sarà un’altra magic hour il giorno dopo, finché il sole continuerà a sorgere e tramontare. Ma al di là della trama e della sua morale, al di là delle situazioni esilaranti e della comicità travolgente, gli elementi di spicco del film sono la sua dimensione nostalgica e quella metacinematografica.
Fin dall’inizio lo spettatore è risucchiato in una bolla spaziotemporale: l’apertura a iride, che ricorda i film muti, sulla scenografia di una città non giapponese dal nome di Sucago (evidente riferimento alla Chicago di Al Capone), che sembra uscita da un film hollywoodiano degli anni Trenta, mostra l’arrivo di un’auto d’epoca da cui escono uomini in doppio petto, pistola alla mano, e irrompono nell’hotel dove una ragazza in baby doll e pettinatura a onde fuma una lunga e affusolata sigaretta. Ci vuole un po’ perché lo spettatore si accorga, vedendo comparire sullo schermo computer e cellulari, che la storia in realtà si svolge ai giorni nostri. Ma la magia è iniziata, e l’’mpressione di trovarsi in piena epoca d’oro di Hollywood non abbandona mai lo spettatore. I riferimenti che si possono trovare sono tanti: da Billy Wilder, da sempre ispiratore di Mitani, al primo Woody Allen, dal gangster movie al noir sino alla commedia screwballdegli anni Trenta e Quaranta. Ciononostante, Mitani rende il film profondamente giapponese inserendo momenti carichi di pathos e sentimento.
Ma soprattutto The Magic Hour è un omaggio al fare cinema. La stessa canzone della colonna sonora allude alla macchina dei sogni che crea “graziose bolle nell’aria”. È un omaggio pieno di rispetto anche per l’esercito invisibile che lavora dietro le quinte, a cui è affidata la soluzione di tutto, come accade del resto nella realtà del set. Infine è un omaggio al veterano Ichikawa Kon, che qui fa la sua ultima apparizione in un cameo prima di passare a miglior vita.
Quello all’arte cinematografica non è un omaggio troppo riverente, però, perché l’artificialità del cinema qui è totalmente svelata, come è bonariamente ridicolizzato il suo tentativo di inseguire il realismo. Il set è continuamente presente, sia materialmente, nelle scene in cui si gira un film nel film, sia idealmente nello sguardo del protagonista, sia nel finale, quando la cinepresa si solleva e quella che fino ad allora era stata la banchina di un molo si rivela essere il viale di una cittadella del cinema su cui si affacciano i teatri di posa. Ma è anche la “realtà” stessa ad apparire come finzione: nella città di Sucago, con le sue strade, il suo alberghetto squallido e il suo night club con le ballerine, i gangster, il boss e la minaccia di essere gettati in mare con le scarpe di cemento – punizione d’altri tempi – sembra di vivere in un film, come osserva Natsuko. C’è una confusione a più livelli tra reale e artificiale, set e luoghi della città, malavita e cliché iconografici. In questo mondo Murata può scambiare tranquillamente la realtà per finzione, ma anche quelli che lo circondano finiscono per scambiare la sua finzione per realtà e, dopo qualche espressione di sorpresa, la riconoscono perfettamente coerente. Il cinema ha creato una realtà più che reale.
Se poi Murata non sospetta di trovarsi al di fuori di un set e dei canoni cinematografici, è perché riconosce che qualche grande maestro, alla ricerca della verità e della massima espressione, ha già fatto tentativi in quella direzione. L’assenza di copione, della cinepresa, del trucco, l’immedesimazione totale anche fuori dal set, anche nelle prove, sono tutte strade già battute che possono essere percorse al contrario per camuffare la realtà da messinscena.
Murata, che vuol crederea tutti i costi, rappresenta lo spettatore ingenuo (e anche il cineasta), che si lascia incantare dalla magia del cinema, laddove l’agente Hasegawa rappresenta quello esigente che vuol vedere la mano del regista, vuol sentire la cinepresa e indagarne il meccanismo. Il primo pur immedesimandosi nella finzione ne esce incolume, espone il petto senza perdere la sua innocenza; l’altro si becca le pallottole. La morale ultima del film è che il cinema stesso è una magic hour, non resta che sedersi in poltrona e goderselo lasciandosi ammaliare dalla sua luce e dalle graziose bolle che emana nell’aria. [Nadia Faienza]