Shikei bengōnin
Shikei bengōnin (死刑弁護人). Regia: Saitō Junichi. Fotografia: Iwai Akihito. Montaggio: Yamamoto Tetsuji. Musiche: Murai Shūsei. Interpreti: Yamamoto Tarō (narrazione), Yasuda Yoshihiro (se stesso). Produzione: Abuno Katsuhito per Tōkai TV. Durata: 97′. Uscita nelle sale giapponesi: 30 giugno 2012.
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Punteggio ★★★
Shikei bengōnin, letteralmente “l’avvocato della pena di morte”, è senza dubbio uno dei documentari più controversi usciti quest’anno in Giappone. Qui più che in altri frangenti artistici andrebbe ribaltata la famosa frase di Marshall McLuhan secondo cui il medium è il messaggio, in quanto lo stile di questo film e la sua pregnanza estetica vengono completamente assorbiti dal tema che affronta e porta alla luce.
Il gruppo della Tokai TV, che già aveva girato il bel Aozora dorobō, con una realizzazione quasi di stampo televisivo porta in primo piano uno dei temi più controversi per la società contemporanea, Giapponese e non, quello della pena di morte. Il lavoro segue la figura di una sorta di “avvocato del diavolo”, Yasuda Yoshihiro, che dal suo minuscolo ufficio di Tokyo da molti anni oramai si oppone alla pena di morte. Ma, e qui stanno la novità ed il coraggio di questo documentario, non è la solita presa di posizione filosofica ed astratta contro la pena capitale, perchè Yasuda è un avvocato che porta fino in fondo le sue convinzioni andando così a difendere i casi giudiziari più scandalosi e quasi persi in partenza. Per rendere l’idea basti dire che Yasuda è uno degli avvocati che ha “osato” difendere Asahara Shōkō, il leader spirituale/deus et machina della famigerata setta Aum che nel 1995 operò l’attentato col gas sarin nella metropolitana della capitale. Ma ha anche difeso un uomo che nel 1980 attaccò un autobus a Shinjuku, nel centro di Tokyo, uccidendo 6 persone. Gli esempi che ci vengono mostrati nel documentario sono tutti di questo genere e a lunghe interviste con Yasuda, vengono alternate immagini di repertorio che ci spiegano quello che successe. Per un attimo, senza varcare quella linea sottile che ci farebbe pericolosamente simpatizzare con gli assassini, sentiamo grazie alle parole dell’avvocato, le “ragioni” del male, di chi diventa di fatto un outcast. Ciò che sottostà a tutto il lavoro di Yasuda, la molla che lo spinge ad andare avanti, dormendo spesso nel suo ufficio e di fatto trascurando quasi completamente figli e moglie, è una sorta di rabbia verso il mondo dei media. Il disgusto verso il potere che lo portò a dimostrare nel periodo universitario per le strade di Tokyo nel biennio 1968-69 trova la sua naturale continuazione nella lotta quasi solitaria contro l’impero mediatico giapponese. La stupida semplificazione e, come detto prima, l’esclusione di fatto di questi individui dalla società con la conseguente sospensione di ogni loro diritto, sono le due caratteristiche che rendono insopportabile agli occhi di Yasuda il panorama mediatico contemporaneo. In Shikei bengōninil termine “documentario” prende una delle sue varianti, declinandosi in un giornalismo di stampo visivo, in questo caso allora l’immediatezza del digitale in cui è girato è un punto a favore che riesce a toccare la coscienza anche dello spettatore meno attento. Come notato da molti nei vari commenti sparsi per il web, è questo un lavoro di quelli che fa pensare, facendoci riconsiderare ciò che fino ad ora sapevamo, o credevamo di sapere. [Matteo Boscarol]