Ai no yokan (愛の予感, The Rebirth)
Locarno International Film Festival 2007: Pardo d’Oro. Altri Film Festival: Pusan International Film Festival 2007
Una donna sotto shock, Niriko, viene interrogata in relazione al crimine compiuto dalla propria figlia frequentante le scuole medie, la quale ha ucciso una sua coetanea. Le sue affermazioni vertono sull’incapacità di cogliere i pensieri della ragazzina, sull’estraneità dell’utilizzo che faceva la giovane di internet, come ha già dichiarato alla polizia. Sa che le proprie scuse non possono rimediare alla tragedia, ma desidera fortemente manifestare il suo dolore alla famiglia della vittima. Subito dopo, ad essere intervistato è il padre della ragazzina uccisa, Junichi: ha lasciato il suo lavoro al giornale, non riesce più a dormire e, dopo la morte della moglie causata dal cancro, la sorte della figlia lo lascia senza pace. A lui non interessa incontrare la madre della giovane assassina: non riesce a perdonare e vorrebbe fuggire. Un anno dopo nell’isola di Hokkaido ognuno dei due vive una sua vita solitaria, di sofferenze e tormenti, costantemente occupati nel loro lavoro e nella loro routine, che si risolve in una sorta di tacita convivenza ambigua. Il destino infatti vuole che lei lavori nella cucina di un ostello in cui lui mangia e dimora durante il suo impiego da operaio siderurgico. Vivono vite parallele senza quasi mai incontrarsi e comunicare. Un giorno lui cerca di avvicinarla raggiungendo la cucina del self-service e, nella fuga di lei, la trascina in strada ricevendosi uno schiaffo. In un secondo momento lei tenta di raggiungerlo e fermarlo nel corridoio dell’ostello, ma lui la evita. Si trovano per strada dove l’indifferenza è contrastata da un ambiguo e contraddetto desiderio di incontrarsi e parlare, mentre la loro vita scorre in una monotonia che rasenta la disperazione. L’uomo guida l’auto quando le sue parole esprimono l’incapacità di vivere senza di lei, ma confermano anche la sua debolezza e reticenza. In chiusura la pellicola ripropone le interviste iniziali. Un brano musicale didascalico parla del senso del loro amore suggerito dal titolo originale del film.
La narrazione poggia su una struttura binaria che gioca sull’antitesi dei sentimenti, sul reciproco isolamento (come appare già nelle due interviste d’esordio) e quindi sull’alternanza sintagmatica che contrappone i protagonisti, spesso collocati in spazi limitrofi come alla tavola calda, dove i confini che li separano sono stabiliti dai limiti dell’inquadratura. Qui avvengono i primi raggelanti confronti nei quali si esprimono tramite l’ambiguità di un linguaggio mimico, di pure reazioni gestuali, in una totale assenza di parola, capaci di cogliere allo stesso momento l’indicibile dell’evento traumatico e dell’indissolubile legame attrattivo. Segni di un linguaggio visivo asciutto, descrittivo e distaccato che osserva senza partecipazione, a distanza, addirittura attraverso il vetro dell’auto, dal quale l’uomo è visto, per un paio di volte, atteso davanti all’ostello per essere prima schiaffeggiato, poi accolto nell’immobilità e nel silenzio più straniante.
È il senso del vuoto e della distanza che viene restituito con uno stile che trascura la bella forma, sfrutta una luce naturale, la presa diretta, una macchina a mano che gioca sul decentramento del quadro, o del personaggio al suo interno. L’inquadratura fissa vede allontanarsi l’uomo alla mensa, in profondità, e poi verso il margine sinistro in una situazione immobile, quasi astratta e onirica quanto più fondata su principi di realismo, su criteri di un costante pedinamento.
Quest’apparente staticità e questa atmosfera straniante sono supportate dalla stessa struttura di alternanze guidate da un meccanismo di ripetizione che raggiunge punte parossistiche. Tutto diviene rituale nella routine dei personaggi, dal pelare le patate a cucinare l’uovo, dalle mansioni lavorative, al momento del pasto: il gesto più banale e quotidiano traduce un moto interiore di cui affiora il carattere ossessivo e patologico che apre all’introspezione, in un racconto dal dominante carattere oggettivo e descrittivo.
La dilatazione della situazione, la sua continua reiterazione, contribuiscono ad una configurazione del tempo che restituisce una condizione esistenziale estremamente palpabile. Ogni attimo è condizionato dal peso del passato, dall’omicidio all’incapacità di comprenderne le motivazioni, ma anche dall’incontro fra i due protagonisti che, a detta dell’uomo, si sono già conosciuti nella precedente scuola frequentata dalle rispettive bambine. La stessa ripetizione delle interviste nell’epilogo pongono l’accento sulle dinamiche dei loro sentimenti: il senso di colpa e il perdono negato che, originati dalla tragedia, prendono forma nell’amore. Esse astraggono da una contiguità lineare l’intera vicenda erigendola a tesi dimostrativa di una formazione sentimentale: all’inizio lui non vuole perdonarla e alla fine ammette la sua attrazione e il loro inspiegabile legame affettivo, contraddetto proprio dalle sue ribadite intenzioni iniziali. L’azione cruciale è esterna alla storia che inizia a omicidio già compiuto e il finale rimane aperto, supportato da quel motivo musicale dichiaratamente allusivo. Le medesime azioni sono riprese da identici punti di vista, dando ritmo narrativo e visivo al racconto, nella sala mensa, nella cucina, come nell’ossessiva entrata al lavoro degli operai che aprono la porta e, in fila, prendono i guanti. Ripetizioni e variazioni che si compiono sul piano espressivo quanto contenutistico le cui interazioni tracciano lo sviluppo drammatico, enfatizzato da un dominante (ed estremo) silenzio che accentua il trascorrere del tempo, gli indugi, le pause, il senso di staticità, l’ermetico e ambiguo fermento delle passioni. Kobayashi coniuga così in questa pellicola dall’esile impianto narrativo, l’approccio naturalista, oggettivo, e una dimensione intimista che respinge l’identificazione, l’empatico coinvolgimento spettatoriale per imporre, al di là delle convenzioni, tutta l’intensità emotiva che scaturisce dal vissuto dei protagonisti. [Davide Morello]