Un’intervista rara a Wakamatsu Kōji (稀なインタビューと若松孝二, Wakamatsu Kōji, a rare interview
Intervista di Alice Massa a Wakamatsu Kōji *
Abbiamo incontrato Wakamatsu Kōji a Il Vento del Cinema, la manifestazione curata da Enrico Ghezzi che ormai da qualche anno si avvale della splendida cornice dell’isola di Procida (2007).
Ci parla un po’ del suo ultimo film, Jitsuroku – Rengō Sekigun (t.l. Cronache dell’Armata Rossa Unita)?
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Perché un film del genere proprio oggi, a più di 30 anni dall’accaduto?
Perché ormai al giorno d’oggi questa parte della storia giapponese viene dimenticata. Pensa che a scuola spesso non si studia più neanche la guerra mondiale, figuriamoci i movimenti di protesta. Il Giappone di oggi ha dimenticato cosa vuol dire protestare, ha dimenticato che nella sua storia recente ci sono stati dei grandi movimenti di protesta. Quindi mi sono sentito in dovere di lasciare una mia testimonianza, di far sapere al Giappone quello che non sa. Io c’ero, ricordo, e questo film racconta la vera storia di quello che è successo. Ci sono stati dei film, soprattutto televisivi, e anche una bella piece teatrale, sugli avvenimenti di quegli anni, ma erano tutti realizzati dal punto di vista della polizia. Volevo quindi portare un altro punto di vista.
Perché i giapponesi oggi non protestano?
Innanzitutto c’è da dire che oggi le persone sono molto più concentrate su se stesse. Questo è dovuto forse all’influenza della cultura americana, ma anche alle famiglie che mettono molta pressione sui loro figli, cercano di farli viaggiare su binari già stabiliti. Poi c’è il fatto che oggi in Giappone se ti metti a distribuire volantini arriva subito un poliziotto e ti allontana. Le manifestazioni sono subito disperse. Insomma, il Giappone degli anni ’60 era molto più libero di quello di oggi. Parliamoci chiaro. Abbiamo protestato contro la guerra in Vietnam. Adesso non ci sono guerre? Ci sono eccome, c’è l’Afghanistan, c’è l’Iraq, eppure di proteste neanche l’ombra. E in questo c’è sicuramente una responsabilità individuale, ma la colpa è soprattutto della società. Per non parlare del fatto che adesso vogliono addirittura cambiare la costituzione. Hanno passato anni a cercare di aggirare l’articolo che prevede il divieto della formazione di un esercito e adesso pensano bene di cambiarlo. E la gente non dice niente. Il fatto è che ormai, anche tra i politici, sono pochi quelli che hanno vissuto la guerra e che quindi capiscono perché esiste quell’articolo. Se non lo si spiega, questo, se le giovani generazioni non vengono a conoscenza dei presupposti della nostra costituzione, è ovvio che non diranno mai niente.
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Prima di tutto, gli anni erano proprio quelli. Il mio reportage nacque perché Adachi mi propose di farlo. Mi disse che visto che l’attenzione dei media era tutta concentrata sulla guerra in Vietnam, se noi avessimo realizzato un documentario sulla Palestina avremmo potuto poi venderlo alle televisioni e fare un po’ di soldi. Arrivati sul posto, mi accorsi che il suo intento era un altro (ride). Io in quel periodo non sapevo nulla della questione palestinese, e come me molti giapponesi. Quando però cominciai a fare delle ricerche, e a parlare con le persone che di questi movimenti facevano parte, tra le quali anche Shigenobu Fusako, una delle fondatrici dell’Armata Rossa Giapponese, mi resi conto che era assurdo che i giapponesi non sapessero nulla di questa storia, e mi sentii in dovere di raccontarla. Allo stesso modo, anche nel film di oggi mi sento in dovere di raccontare una storia. Quando finii il reportage sulla Palestina, o forse dopo un altro film, ora non ricordo bene, ci fu il tragico epilogo dell’Armata Rossa Unita, che fu seguito in televisione da milioni e milioni di giapponesi, perché fu la prima volta che le troupe televisive seguirono e trasmisero in diretta non-stop un fatto di cronaca.
Ci parli adesso delle vicissitudini produttive di Jitsuroku – Rengō sekigun.
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Tornando un attimo a parlare delle giovani generazioni giapponesi, queste erano il tema anche del suo film precedente, 17 sai no fūkei– shonen ha nani wo mita no ka (t.l. Veduta dei 17 anni – Cosa ha visto il ragazzo?), presentato al Torino Film Festival del 2005.
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Il tema di questa edizione de Il Vento del Cinema è “afterlife”. Cosa ne pensa?
In Giappone tendenzialmente siamo buddisti, e quindi crediamo che dopo la morte ci sia semplicemente un’altra vita, ma senza la coscienza della precedente. Insomma, ad essere sincero non ho idea di cosa ci sia dopo la morte, ma sono convinto che se anche ci fosse qualcosa non ne avrei coscienza in quel momento, quindi devo dire che la cosa non mi interessa particolarmente. Per quanto ne so, tra di noi potrebbero esserci delle persone che sono già morte un sacco di volte, o ci potrebbero essere le loro anime: non lo sapremo mai. A me interessa quello che succede in questa vita. Una forma di “eternità” ad esempio, può essere il cinema stesso. In questa manifestazione vengono proiettati quattro dei miei film piuttosto vecchi, e da quando li ho realizzati sono passati più di trent’anni. Magari tra 100 anni ci sarà ancora qualcuno che li proietterà, e a quel punto ovviamente io sarò morto, ma i film ci saranno ancora. Non è eternità questa?
Come nasce un suo film?
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In questi giorni, a chiunque le chiedesse cosa ne pensasse del cinema giapponese contemporaneo rispondeva che non se ne salva nulla. Poi però ha citato Tsukamoto e Kitano che apprezza seppure per motivi diversi. Che ci dice allora di un grande come Imamura Shōhei?
Sì, in effetti ho avuto sempre molta ammirazione per Imamura. L’ho incontrato varie volte e con lui mi sono sempre trovato molto bene. È stata una grande perdita. I suoi film, per quanto molto diversi dai miei sia dal punto di vista dello stile che dell’intenzione, hanno una forza straordinaria. Takeshi (Kitano, N.d.T.) lo conosco da quando bighellonava per Shinjuku senza fare nulla. Di lui apprezzo il fatto che si diverte a fare quello che fa, che dice quello che vuole dire. Di Tsukamoto invece apprezzo proprio l’approccio al cinema. Dà tutto se stesso per fare il film che vuole fare, ci rimette anche economicamente, fa l’attore per altri registi per fare un po’ di soldi, ma non perde mai di vista l’obiettivo. La differenza tra lui e molti altri registi salta subito all’occhio se pensiamo a una cosa: lui detiene i diritti dei suoi film, moltissimi altri no. Allora perché li fanno? Io penso che per un regista sia fondamentale detenere i diritti dei propri film.
Parliamo adesso dei grandi maestri del cinema giapponese.
Quando ho iniziato a fare cinema, il mio primo obiettivo è stato quello di non fare cinema come avevano fatto loro. Il cinema, come tutte le cose, deve cambiare, deve evolversi, altrimenti non ha senso di esistere. Sono stati dei grandi maestri, ma non sono proprio il mio genere. Di Kurosawa però ho sempre apprezzato la sua visione degli umili, il suo mettersi sempre dal loro punto di vista.
In quel periodo non mi sentivo parte di un gruppo, e anche ora, a posteriori, non credo che sia stato un vero e proprio movimento. Non è per dire, ma credo che molti registi che poi sono stati annoverati nella Nouvelle Vague giapponese abbiano utilizzato molti espedienti che ho introdotto io per primo.
Che ne pensa del cinema di genere?
Per quanto mi riguarda non esiste. Io quando faccio un film voglio esprimere qualcosa. Poi il film prende forma e diventa quello che diventa. Ma se ci pensi bene, i miei film non appartengono mai a un genere preciso. Il cinema di genere contemporaneo non è altro che una grande copia. Va di moda l’horror? Allora tutti fanno film horror. Va di moda il cinema di Hong Kong? E tutti a fare film alla moda di Hong Kong. Ma questo non è neanche cinema.
Il film che non farà mai?
Non farò mai un film yakuza. Non sopporto la connotazione romantica che danno agli yakuza, il codice d’onore e tutte queste stupidaggini. Per esperienza personale, so che tra gli yakuza non ci sono brave persone. Arrivano a diventare yakuza proprio perché non lo sono. I film yakuza sono una finzione.
* Si ringraziano l’autrice dell’intervista e i titolari del sito Neoneiga per la concessione alla ripubblicazione.