Yoru wa nagakunai (夜は長くない, Our Night Is Not Long /Not Long at Night)
Link: Intervista al regista
Presentato all’ultimo Film Festival di Tokyo, e diretto dal giovane Tooyama Shōji (1984), Yoru wa nagakunai è un dolente road movie dai modi decisamente minimalisti (di là dai drammatici eventi e dalle tragiche situazioni che vi fanno da sfondo). L’intreccio verte su di una donna incapace di venire a patti col dolore provocato dalla scomparsa del figlio, morto suicida. Dopo essersi liberata della borsetta, di un rossetto e delle scarpe, la donna «ruba» un auto e si mette in viaggio – scopriremo più avanti che la sua meta è la cittadina di mare in cui trascorse la sua ultima vacanza col figlio. Come vogliono le convenzioni del genere, il viaggio, tanto esistenziale quanto effettivo, è occasione di una serie di incontri che finiscono tutti col rifrangere l’angoscia della stessa protagonista. Dapprima è la volta di un uomo anziano, che vive da solo, se non per la compagnia dei suoi due cani, Bonnie and Clyde, dopo che la figlia se ne è andata venti anni prima. Poi tocca a un manovale che le racconta della morte del nonno avvenuta nello stesso giorno in cui sfogliò la prima rivista pornografica della sua vita. Quindi è la volta di una ragazza cieca che ama recitare Shakespeare e il cui unico parente in vita è stato ricoverato in ospedale. Infine c’è un giovane operaio, il quale, nel ristorante dove ha invitato la donna a cena, riceve la notizia della morte del padre.
Anche se alcuni gesti potrebbero far pensare al contrario, come quando la protagonista si pulisce dalla macchia di rossetto che a lungo le aveva macchiato il volto o quando si cambia d’abito per indossare degli indumenti trovati sull’auto «rubata», né i personaggi incontrati, né gli eventi che accadono sembrano modificare qualcosa in lei. Non siamo così di fronte a un personaggio che si evolve, matura, – tuttalpiù quelli che mutano sono transitori stati d’animo – ma a qualcuno che sembra condannato a continuare a essere ciò che le tragiche circostanze della sua vita l’hanno portato a essere. Un road movie senza movimento, o, per dirla in termini wendersiani, che è falso movimento. Lo stesso stile del film tende ad una esasperata – ma mai esasperante – lentezza che passa attraverso la lunga durata delle inquadrature – come quella in cui si decide a «rubare» l’auto – che in taluni casi – data l’assoluta immobilità del profilmico – paiono quasi dei frame stop. Del resto lo stesso finale della storia, a suo modo più sospeso che aperto, sembra voler lasciare tutto come è.
L’angoscia della protagonista passa anche attraverso la sua paura della notte, causata soprattutto dagli inquietanti sogni che la assalgono (e che in due diverse circostanze il film evoca, attraverso un’apparizione femminile, presumibilmente un doppio stesso della donna, che in un caso si suicida gettandosi da un tetto, e nell’altro le dice che solo lei può salvarla). Importante, infine, anche la funziona simbolica del mare, come testimoniano l’incipit del film, la sua chiusa e soprattutto il messaggio che la donna trova scritto sull’auto: «Veniamo dal mare o siamo diretti verso il mare? ». [Dario Tomasi].