Dai giornali giapponesi: Sōgen no isu (草原の椅子, Chair on the Plains)
Quando arriva ai cinquant’anni, la maggior parte degli uomini non può sfuggire a una sensazione di stanchezza nei confronti della vita. Sia in ufficio che in famiglia si sentono a disagio senza un perché e si portano sempre dietro una sensazione di appassimento.
Anche il protagonista di questo film era un uomo del genere ma arriva una svolta decisiva che cambia radicalmente il suo modo di vivere. Ciò che dà inizio a tutto è l’incontro con delle altre persone.
Tooma (Saitō Kōichi) è un dirigente di un’azienda produttrice di macchine fotografiche. Salva da una situazione molto difficile Togashi (Nishimura Masahiko), l’amministratore delegato di una azienda cliente, e i due diventano amici. Entrambi hanno un lato da donnaioli ma dall’altro lato sono premurosi verso la famiglia e i subordinati, insomma sono un po’ dei deboli ma hanno un cuore. Tooma rimane incantato dalla titolare di un negozio di ceramica, Kishiko (Kichise Michiko), anche lei divorziata. Tutti e tre sono accomunati dalle difficoltà del vivere e dall’avere un passato doloroso. Si stringono fra di loro leccandosi le ferite a vicenda ma un bambino li guida verso un mondo nuovo.
Tooma finisce controvoglia per prendersi cura di Keisuke (Sadamitsu Kanata), un bambino di quattro anni rinchiuso in sé perché abbandonato dalla madre (Koike Eiko).
Keisuke comincia però pian piano ad aprirsi e si affeziona anche a Togashi e a Kishiko.
Il film dipinge in modo accurato questo processo. Il regista Narushima Izuru, grazie alla collaborazione congiunta con due sceneggiatori di suoi precedenti film, Katō Masato di Kokō no mesu e Okudera Satoko di Yōkame no semi, e accumulando episodi uno dopo l’altro, è riuscito a rendere l’evolversi della storia in modo convincente. In particolare, il modo in cui viene mostrato il lato gentile dell’imbronciato Tooma è molto bello. Anche Satō Kōichi è molto adatto per la parte. L’ottima performance nella parte di un uomo a cui non piacciono i bambini e che però fa ogni sforzo possibile per farseli piacere, riesce a far emergere i sentimenti veri del personaggio. La scena in cui sfoga la sua rabbia contro la madre egoista è straordinaria.
Keisuke induce al cambiamento i tre adulti e alla fine li spinge a fare un viaggio in Pakistan. La meta del viaggio è Hunza, considerato l’ultimo paradiso terrestre. Di fronte a un panorama grandioso, i quattro non possono fare altro che trattenere il fiato. Quello è un punto di arrivo ma per le loro vite è un punto di partenza. Le riprese in loco sono affascinanti e anche gli spettatori, di fronte a un panorama del genere, chissà che non arrivino ad avere sentimenti simili.
Il romanzo originale di Miyamoto Teru da cui è tratto il film venne scritto subito dopo il grande terremoto del Kansai [1995]. Era un momento in cui i giapponesi erano smarriti. Oggi, passati circa vent’anni, il Giappone si trova dopo il grande terremoto e lo tsunami del Giappone orientale [2011], una situazione simile nella sua gravità. In realtà è chiaro che il messaggio del film non è indirizzato solo ai cinquantenni stanchi.
[Kondō Takashi – Yomiuri Shinbun, 1 marzo 2013]
(Traduzione libera di Franco Picollo)
T'ho affibbiato un Liebster, non volermene 😛
Non so bene cosa sia un Liebster, soprattutto se connesso con il verbo "affibbiare", che di solito ha una valenza negativa. Se il Liebster è il premio virtuale del mondo dei blog che dal tedesco significa "il più amato" o simili, ti ringrazio. Se invece il Liebster è una cosa tipo il tapiro d'oro del Gabibbo, pazienza, (ogni tanto) esiste ancora il diritto di critica. Franco