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Koreeda Hirokazu’s I wanted to be a Japanese (日本人になりたかった …, Nihonjin ni naritakatta ….)

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Koreeda Hirokazu’s I wanted to be a Japanese (日本人になりたかった。。。, Nihonjin ni naritakatta ….). Regia: Koreeda Hirokazu. Fotografia: Ito Shinji. Montaggio: Koreeda Hirokazu. Suono: Okumura Keiichi. Produzione: TV Man Union Inc. Durata: 47’.Anno: 1992.

Kinoshita Atsushi è, all’apparenza, un uomo che ha combattuto nelle Filippine con l’esercito giapponese: tornato a casa il trauma della guerra gli ha danneggiato la memoria. Non sapendo più neppure quale sia il suo nome, decide di adottare quello della moglie, Kinoshita appunto. Non è mai stato regolarmente registrato.
La realtà però non è quella raccontata da Kinoshita. A dicembre 1985 il suo avvocato riceve una chiamata dalla polizia: l’uomo è stato trovato in possesso di un passaporto falso, e fermato. Si tratta in effetti di un coreano, che risponde al nome di Park Yong-dok e del quale risultano diversi viaggi, negli anni, in Sud Corea. Neppure la moglie era al corrente della sua vera identità. È uno dei tanti casi di coreani le cui famiglie erano emigrate dalla Corea in Giappone. Nel 1981 aveva acquistato un hotel e poi, saputo che non avrebbe potuto regolarmente registrarsi, aveva contraffatto il passaporto, così come il certificato di residenza.
Il caso viene dato in pasto alla stampa, che parla di “spia”, intanto l’uomo deve subire un processo per la mancata registrazione in quanto straniero, per la violazione delle norme sui passaporti e per la contraffazione di documenti. Per la polizia non ci sono accuse precise circa il fatto che svolgesse attività di spionaggio, ma nessuno si prende la responsabilità di quanto viene pubblicato sui quotidiani, né di smentirlo.
Vengono intervistate anche altre persone, che testimoniano come la vita dei coreani in Giappone non sia facile, e che spesso siano oggetto di comportamenti non solo velatamente razzisti: forse per questo motivo Park/Kinoshita voleva diventare giapponese. Però allo stesso tempo ricercava le sue radici coreane.
L’uomo sparisce, il suo hotel viene rilevato da una nuova gestione.
L’ultima parte del documentario è dedicata al viaggio della troupe nel paese natale di Park, in Corea, alla ricerca, vana, dell’uomo e delle sue tracce.

La voce fuori campo definisce il protagonista come un uomo «in bilico tra due emozioni: essere giapponese e tornare in Corea». È un personaggio sfuggente, che non appare per tutto il film, se non in una foto sfocata, in una delle ultime inquadrature. Koreeda segue la storia di quest’uomo, con tutte le sue contraddizioni, fornendoci il ritratto di un’esistenza a metà tra due mondi, e, come sembra risultare alla fine, forse aliena ad entrambi.
La primissima parte del documentario riprende la storia di Kinoshita/Park dal suo racconto: di ritorno dalla guerra era un uomo senza memoria, e, quindi senza identità. Se ne costruisce allora una falsa, giapponese, utilizzando il cognome della moglie. Però, il regista ce lo lascia immaginare, i ricordi del suo essere coreano ci sono, fanno sì che la sua diventi una sorta di identità ibrida: parla giapponese, vuole fortemente vivere in Giappone, ma fa frequenti viaggi nella sua terra natale, vive vicino alla sede di una delle organizzazioni di coreani in Giappone.
Koreeda si sofferma sulla questione degli immigrati in Giappone, anche con interviste ad altri coreani: ne emerge un quadro non troppo roseo della loro situazione, a volte sono costretti a subire comportamenti razzisti. «Vivere come coreani in Giappone è dura» viene ribadito più volte.
Quando il caso esce sui giornali, il protagonista viene travolto dagli attacchi mediatici che lo definiscono una spia. Koreeda cerca di far emergere, pur nell’assenza dell’uomo, chi fosse veramente: scopre, per esempio, che di fianco all’hotel di cui era proprietario c’è un orfanotrofio e che il pianoforte era stato regalato alla struttura proprio dal proprietario dell’albergo, il quale invitava anche i bambini per Natale. Voleva integrarsi e supportare la comunità.
Kinoshita/Park è il vero protagonista, ma è anche un mistero, che non viene svelato, è il grande assente che suscita la riflessione sulle proprie radici, sul posto di ognuno nella società, su quanto – è un tema classico del regista – la memoria costituisca l’essenza dell’identità delle persone.
Anche in quest’opera, come negli altri documentari di Koreeda, si fa ampio uso di inquadrature fisse, e di fotografie, come quelle d’epoca sulle condizioni degli immigrati coreani dopo la guerra.
Nell’ultima parte, quella ambientata nel paese natale di Park, il tempo delle riprese si dilata, il regista si ferma sui volti, del capo villaggio per esempio, o delle donne che tornano dai campi. Dopo un primo momento di perplessità da parte delle persone del paesino, in diversi si fermano incuriositi e si intrattengono con la troupe. Il passare del tempo è testimoniato dal calare della luce, e alla sera il capo villaggio, che intanto ha recuperato una specie di mappa del luogo, li conduce nel posto dove avrebbe dovuto abitare Park o la sua famiglia. Ma non c’è più nulla. Colpisce la sequenza che riguarda una donna anziana, che racconta di aver lavorato per qualche anno in Giappone e si sforza di parlare giapponese, ammettendo, quasi con ritrosa soddisfazione, che è la prima volta che usa di nuovo quella lingua dopo 40 anni… Da fuori campo arrivano i pensieri del regista: «la sua gioia mi fa soffrire». Altri si avvicinano, raccontano le loro esperienze in Giappone.
Dopo aver considerato le vicende storiche, quindi i problemi attuali, Koreeda chiude sui volti di uomini e donne provati dagli anni e dal lavoro. Park era uno di loro, «forse voleva essere coreano», o forse voleva semplicemente vivere nel luogo che aveva scelto come propria casa, dove c’erano i suoi affetti, vale a dire in Giappone, ma conscio delle proprie radici.
Le ultime due inquadrature sono quelle di un enorme bellissimo albero e una foto sfocata di Park, sorridente, a Natale. [Claudia Bertolè]

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