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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

After life (ワンダフルライフ, Wandâfuru raifu)


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Wandâfuru raifu  (ワンダフルライフ, After Life). Regia, soggetto, sceneggiatura e montaggio: Koreeda Hirokazu. Fotografia: Sukita Masayoshi, Yamazaki Yutaka. Musica: Takamatsu Yasuhiro. Interpreti: Arata, Oda Erika, Terashima Susumu, Kagawa Kyōko, Iseya Yūsuke. Produttori: Akieda Masayuki, Satō Shiho.  Durata: 118′. Uscita nelle sale giapponesi: 17 aprile 1999.

La vicenda è ambientata in una sorta di limbo, un luogo nel quale persone defunte di recente si ritrovano per seguire un percorso di qualche giorno, durante il quale ripenseranno alla propria esistenza. Gli edifici hanno l’aspetto di una struttura scolastica, un po’ decadente: qui i nuovi arrivati sono accolti dai membri di uno staff, che chiedono loro di selezionare un ricordo da portare con sé per l’eternità. Li aiuteranno, attraverso colloqui e interviste, a fare la propria scelta. Una volta che ciò è accaduto, l’ambiente del ricordo sarà ricostruito in modo che esso possa essere rivissuto una seconda volta, e venire così filmato, nell’ultimo giorno di permanenza presso la struttura, con l’ausilio di un vero e proprio set cinematografico.
I membri che compongono lo staff sono un mistero fin dall’inizio: hanno a volte l’aria di studenti, altre si presentano quasi come un’équipe medica. Nonostante siano un gruppo, alcuni di loro spiccano, in particolare Mochizuki e Shiori. I due si riveleranno essere anche loro defunti che avrebbero potuto, ma non hanno saputo, scegliere al momento opportuno il proprio ricordo eterno, e sono così condannati a rimanere bloccati in questa sorta di limbo, nel quale si dedicano ad aiutare gli altri a ricordare. Mochizuki riesce, infine, a fare la sua scelta, ad ottenere un permesso speciale per poter filmare il proprio ricordo e lasciare il limbo. La sua ricostruzione riunisce la memoria di una vecchia fiamma, divenuta poi la moglie di un defunto affidato alle sue cure, il signor Watanabe, e lo stesso staff, nell’atto di riprenderlo.
Dopo la definitiva “dipartita” di Mochizuchi, Shiori, dall’inizio visibilmente affascinata dal ragazzo e con il quale formava una coppia ormai affiatata di “intervistatori”, si ritrova da sola ad iniziare un nuovo ciclo di colloqui con il successivo gruppo di defunti.

La struttura di After Life è ad incastro: il materiale di fiction si alterna a quello documentario, senza che sia possibile distinguere l’uno dall’altro. I primi tre capitoli sono composti da scene con attori che seguono le indicazioni della sceneggiatura di Koreeda, e da altre nelle quali attori improvvisano, o ancora, in cui non attori raccontano di esperienze personali.
L’idea era quella di stimolare una sorta di collisione ideale tra le storie reali e il mondo della finzione: il risultato fu che gli stessi attori si sentirono influenzati da questo “apporto di realtà” e alcuni di essi, durante le riprese, finirono per improvvisare sulla base di ricordi personali.
In After Life, lo dice il titolo, si parla di vita oltre la morte. La traduzione letterale in inglese del titolo giapponese è Wonderful Life, che sembrerebbe rimandare a It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa, 1946) di Frank Capra, e ad altri film come Heaven Can Wait (Il Paradiso può attendere, 1943) di Ernst Lubitsch. Ma fin dalle prime inquadrature – il fatiscente edificio scolastico, le “interviste” a non attori – ci si rende conto di quanto si sia lontani dagli schemi di intrattenimento hollywoodiani: del resto lo stesso Koreeda ricorda di aver visto Defending Your Life (Prossima fermata: Paradiso, 1991) di Albert Brooks, di averlo ritenuto coerente con la visione americana, e di aver deciso poi di realizzare qualcosa di completamente diverso.
Il tema predominante di After Life è la memoria. Il film si concentra sulla ricerca del “ricordo perfetto”: quell’istante o quella sensazione capaci di riassumere tutto il senso di una vita e che, pur nella fragile evanescenza che li contraddistingue, esprimono paradossalmente la forza dirompente di riuscire a forgiare l’identità stessa della persona che li ricorda.
After Life è, allo stesso tempo, un film sul cinema. La pratica cinematografica, che qui più che mai si rifà all’idea baziniana di preservare la vita proprio attraverso la sua rappresentazione, è richiamata direttamente dalle sequenze nelle quali sono ricostruiti e filmati i ricordi dei defunti. Oppure, indirettamente, dai fatti riportati degli stessi defunti: il signor Watanabe, per esempio, sceglie il ricordo di un dialogo con la moglie durante il quale le prometteva di portarla al cinema. La complementarietà tra realtà e rappresentazione cinematografica non viene peraltro proposta come risolutiva, anzi ne vengono rilevati i limiti: uno dei personaggi fa espressamente notare che il ricordo filmato non sia che un surrogato e che non potrà mai sostituire l’esperienza reale.
Lo stile che caratterizza il film è, come si è detto, una fusione di materiali diversi – interviste di stampo documentaristico, il regista ne realizzò oltre cinquecento tra le quali scelse poi quelle da inserire, e parti di fiction – in un insieme organico. Durante i colloqui, secondo un metodo tipico del documentario, non ci sono mai flashback, per evitare che «si atrofizzi  l’immaginazione dello spettatore». Essi sono normalmente ripresi con inquadrature fisse e frontali. Ricorrenti sono poi quegli “spazi vuoti”, tipici del cinema di Ozu Yasujirō, che sospendono il ritmo e inducono alla riflessione: il corridoio deserto, le stanze “disabitate”, l’edificio scolastico di notte, ripreso dall’esterno.
In questo scenario surreale si muovono figure altrettanto difficili da inquadrare: oltre ai defunti, i membri dello staff, estinti anche loro, e, fra questi, Mochizuki e Shiori. Il primo incarna la classica figura dell’eroe tragico: come gli altri membri dello staff, porta su di sé un peso, la mancanza di non aver saputo a suo tempo scegliere il proprio ricordo, ma è soprattutto su di lui e sulla sua storia personale che diversi elementi si addensano fino a delineare una figura autonoma rispetto al resto del gruppo, che segue uno sviluppo narrativo più approfondito e specifico. Il suo personaggio, poi, sembra rimandare alla figura del fantasma: la relazione del signor Watanabe, della moglie Kyōko e del precedente fidanzato di lei, lo stesso Mochizuki, è espressa visivamente da inquadrature nelle quali la figura del ragazzo, ormai defunto, appare come un vero e proprio spirito, spesso presente insieme ai due, come a volere “spezzare” l’unità della coppia.
Non mancano, poi, i rimandi al precedente Maborosi: durante una delle interviste, un uomo ricorda che tentò di suicidarsi all’età di vent’anni. Prima di lanciarsi dalla scogliera, il suo sguardo era stato distratto dai raggi della luna che, colpendo i binari del treno, avevano prodotto una luce improvvisa, come un lampo. Un bagliore negli occhi, proprio nel momento della decisione fatale, lo aveva fatto desistere. In questo caso la luce abbagliante, a differenza che per Ikuo, lo sfortunato personaggio del film precedente, aveva salvato l’uomo, invece di condannarlo.
Tra le sequenze degne di nota, molte, come detto, riferite al cinema: le riunioni durante le quali i componenti dello staff discutono del modo di realizzare le riprese, l’allestimento di un vero e proprio set cinematografico, costruito per filmare i ricordi. A questo riguardo una serie di inquadrature dal carattere simbolico sono quelle che ritraggono la giovane Shiori alla ricerca della locationpiù idonea per le riprese. La ragazza esce in giardino e la macchina da presa la segue da dietro una fila di tronchi di bambù. La sua figura in movimento risulta frammentata come nei fotogrammi di una pellicola. È un immagine che se, da una parte, bene esprime il sentirsi prigioniera di Shiori nel limbo cui è destinata, così come nei suoi sentimenti per Mochizuki, dall’altra sembra essere un’efficace metafora dello stesso processo cinematografico.[Claudia Bertolè]

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