Anata e (あなたへ, Dearest)
Anata e (あなたへ – Dearest ). Regia: Furuhata Yasuo; Sceneggiatura: Takeshi Aoshima, Furuhata Yasuo; Fotografia:Hayashi Junichiro; Montaggio: Junichi Kikuchi; Musica: Yusuke Hayashi; Direzione Artistica: Yauchi Kyôko; Interpreti: Takakura Ken, Tanaka Yûko, Satô Kôichi, Kitano Takeshi, Asano Tadanobu, Kusanagi Tsuyoshi, Yo Kimiko, Ayase Haruka, Miura Takahiro, Produzione: Toho, Hoei Sangyo Co. Ltd., Shu Tokki, Tokyo Laboratory Co. Ltd. ; Produttori: Satô Yoshihiro, Maeda Kouji, Kokubo Toshimi, Shindo Junichi. Durata: 111’. Uscita nelle sale giapponesi: 25 agosto 2012
Links: Trailer – Mark Schilling
Punteggio **1/2
Shimakura Eiji è un anziano ufficiale carcerario prossimo al pensionamento. Dopo la grave malattia della moglie e la sua conseguente morte, decide di concludere l’esperienza lavorativa dedicandosi ad una solenne quanto inattesa ambasceria. Con un mini-van da lui allestito e reso abitabile, si dirige nell’isola di Kyushu, la più meridionale del Giappone, verso il paese natio della donna. Dovrà infatti spargere le sue ceneri in quel mare, proprio come lei gli ha fatto sapere tramite una lettera consegnatagli solo dopo la morte. In questo lungo e provante viaggio l’anziano incontrerà personaggi eccentrici ma affabili, tutti (chi più, chi meno) con peculiarità simili alle sue. Il passaggio di un uragano metterà, ad un dato punto, in dubbio la riuscita del proposito, ma Eiji si ritroverà, infine, a realizzare che, nonostante tutto, la vita merita di essere vissuta fino in fondo.
Attivo fin dagli anni Sessanta, Furuhata Yasuo è noto soprattutto a pubblico e critica nipponici per Poppoya, che nel 2000 gli valse il premio della Japan Academy come regista dell’anno.
Autore sobrio e posato nello stile, incline a mostrare gli aspetti più intimisti e malinconici dei suoi personaggi focalizza, anche con quest’ultimo lavoro, le tematiche principali sul significato della vita in prossimità della morte e su di un’accettazione del lutto per nulla agevole. Ancor più linfa trae un film come questo da un tale concetto, rafforzandosi concettualmente e col prosieguo della storia, anche grazie all’esperienza del trauma della separazione di due vite e, nondimeno, alla non più giovane età del protagonista.
Anata e, che vanta la presenza nel cast oltre che dell’icona Takakura Ken anche di altri attori di prim’ordine quali Kitano Takeshi e Asano Tadanobu, si regge in realtà totalmente sull’interpretazione del protagonista e sul suo commovente viaggio verso il paese d’origine della defunta moglie. Un percorso difficile, nel quale anche madre natura sembra non essere inizialmente favorevole e, nel quale però, si troveranno le risposte necessarie, e si porterà a termine quell’ultima particolare richiesta della donna. I vari personaggi che il vecchio Eiji incontra durante il suo percorso di migliaia di chilometri, sono anch’essi esempi di esistenze solitarie, in perenne movimento, in un paese che non ha molto di più da dar loro. Questo aspetto non fa che rafforzare la posizione di Eiji nella storia, circondandolo di figure con destini simili al suo e permettendogli dunque di discorrervi assieme sui fatti della vita, di darsi da fare aiutandoli nelle loro mansioni, oppure offrendogli nuove prospettive per soffermarsi e meditare sulla propria vita. In questo modo l’anziano uomo potrà rendersi conto che non è il solo a vivere la sua vita malinconicamente ed in solitudine e che questo stato può prescindere dal discorso dell’età di un individuo ma, forse, non dal trauma di una così grave perdita. Proprio questo può essere dunque considerato l’assunto che sorregge tutto il lato espressivo della pellicola, dal soggetto, alle interpretazioni, fino allo stile registico.
Se è palese fin da subito, poi, che l’intenzione è quella di lasciare in mano le redini del film alle pur ottime capacità di Takakura è forse, proprio da questa intenzione, che può affiorare qualche lacuna. L’imponente figura dell’icona attoriale del cinema giapponese incentra infatti su di sé tutte le attenzioni, anche a scapito degli altri attori e della narrazione tutta. La sua maschera è quasi monodimensionale nell’accettazione di un destino crudele, ma anche una volta riuscito a gettare le ceneri in mare, quel velo di plumbea attitudine, continua ad aleggiare su di lui. È come se mancasse, da parte del protagonista, la voglia di credere in un futuro e di sperare, per gli ultimi anni di vita, in qualcosa di positivo. Il film di per sé mantiene saldo su questo livello tutta la narrazione, con una regia che richiama fortemente agli stereotipi del cinema classico. A tal proposito la sequenza del flashback in cui la moglie ancora in vita interpreta, per intero, una canzone giapponese d’altri tempi, sembra davvero provenire da un melodramma della Shochiku dei tardi anni Quaranta.
Questa nostalgica melodia, con testo del poeta Miyazawa Kenji (morto nei primi anni Trenta), lontana nel tempo e nello spazio, fa il paio con la totale mancanza di spirito ironico da parte del protagonista, conferendo al film un’aura che risulterebbe difficilmente accessibile anche per un fruitore nipponico relativamente giovane. Stereotipi così tipicamente ancorati ad uno stile ormai sbiadito (senza dubbio per chi non è addentro alla storia culturale del Sol Levante), da risultare quasi imperscrutabili e non appieno assimilabili per un pubblico di formazione occidentale. [Fabio Rainelli]