Tsuki no sabaku (月の砂漠, Desert Moon)
Tsuki no sabaku (月の砂漠, Desert Moon). Regia, sceneggiatura e montaggio: Aoyama Shinji. Fotografia: Tamura Masaki. Musica: Jim O’Rourke. Interpreti e personaggi: Mikami Hiroshi (Nagai), Toyota Maho (Akira), Kashiwabara Shūki (Keechie), Ikari Yukiko (Kaai). Produttori: Sato Kumi, Sentō Takenori per CyberAgent. Uscita nelle sale giapponesi: maggio 2001. Durata: 131′
«Quando si guarda la Luna, la si trova bella. Impazzivo dal desiderio di andarci. Ma una volta arrivato, ho scoperto che non c’era niente… Nient’altro che deserto». Questa è sicuramente una delle metafore più esplicite e al contempo più efficaci per cogliere la condizione esistenziale del protagonista Nagai, rampante uomo d’affari, la cui quotidianità è ricca di appuntamenti di lavoro, il quale, di fronte ai suoi soci, constatando il fallimento della sua politica d’impresa, chiede di ricominciare tutto da zero. Parallelamente, e in completa simmetria, si ritroverà a pronunciare la medesima richiesta davanti alla moglie Akira e alla figlia Kaai che ormai vivono sole e vogliono trasferirsi in campagna, in una vecchia e solitaria casa ereditata dai genitori. In mezzo ai due poli, lo sfiduciato imprenditore e la sua ex famiglia, si trova uno gigolò, Keechie, che funge da tramite, il quale viene assoldato dal protagonista ossessionato dal bisogno di ritrovare la moglie. Un personaggio a metà strada fra il filosofo e l’aspirante gangster che vive di espedienti, senza casa e senza famiglia, la cui instabilità raggiunge il suo apice nel finale. Facendo sue le parole di Nagai, afferma in più occasioni che quando si ottiene ciò che più si è desiderato, questo scompare e diviene una semplice illusione. Spunto di riflessione che, nell’economia della narrazione, fornisce ampio spazio ai dialoghi, la cui consistenza definisce atmosfere tanto concrete, quanto tese ad astrarsi e rarefarsi, come avviene nell’incontro fra Akira e Keechie, nel gioco dei ruoli che finiscono per interpretare, quando le stesse figure umane tendono a perdere nitidezza nel rapporto fra superficie e profondità del quadro.
Aoyama esplora, con uno stile piano, farcito di frangenti visionari, il tema della famiglia, o ancor meglio, della mancanza e della negazione della famiglia nel contesto attuale. Lo fa su più livelli fino mettere in scena il motivo del parricidio: sul piano ideale quello dello gigolò e su quello reale quello di Tsuyoshi, l’amico gangster. Nel primo caso è lui a dichiarare, mentendo, il reato commesso, mentre nel secondo Tsuyoshi uccide il padre con la pistola davanti allo stesso Nagai che si ritrova a vivere gli effetti di una sbronza insieme ai teppisti. Ancora, prima dell’epilogo sarà lo stesso Nagai ad offrirsi a Keechie come padre sacrificale, per salvare la propria famiglia ritrovata, in un gioco di continui spostamenti e sostituzioni simboliche. La famiglia (e la sua assenza) è ancora ideale nelle visioni soggettive della donna, nella fantasmatica mite presenza dei suoi genitori, come nell’inquietante soggettività di Nagai, la cui visione si deforma nella solitudine di una ricca casa vuota che assume le tinte di un’ambientazione horror.
La critica alla società capitalistica, alla mercificazione del corpo, al mito del denaro e quindi alla perdita degli affetti, dei valori tradizionali; la critica ad una società sviata, drogata di alcol anfetamine e tabacco, e alla sua conseguente distorta concezione morale, com’è quella di Keechie e di tutti quelli con cui viene a contatto, è contrassegnata da spunti riflessivi, pause e sospensioni narrative, disinquadrature e sentimento d’attesa. Lunghe carrellate laterali scorrono come sguardi rinchiusi nella città, nell’incipit, oppure accompagnano madre e figlia nel loro atteso e lento avvicinarsi alla nuova auspicata vita di campagna, come a tracciare, attraverso soluzioni espressive, un’altra simmetria di valori semantici in contrapposizione.[Davide Morello]