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Tomogui (共喰い – Backwater)

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Tomogui (共喰い、Backwater). Regia: Aoyama Shinji. Soggetto: dall’omonimo romanzo di Tanaka Shin’ya. Sceneggiatura: Arai Haruhiko. Fotografia: Imai Takahiro. Scenografia: Shimizu Takeshi. Montaggio: Tamaki Genta. Musica: Aoyama Shinji, Yamada Isao. Suono: Kikuchi Nobuyuki. Interpreti e personaggi: Suda Masaki (Tōma), Kinoshita Misaki (Chigusa), Shinohara Yukiko (Kotoko), Mitsuishi Ken (Madoka), Tanaka Yuko (Jinko). Produzione: Kai Naoki per Stilejam, Pictures dep. Anteprima mondiale: 15 Agosto 2013 Locarno film festival. Uscita nelle sale giapponesi: 7 settembre 2013. Durata: 102’. Girato in DCP.
Links: Mark Schilling (Japan Times) – Simone Emiliani (Sentieri Selvaggi) – Giampiero Raganelli (Asia Express, con trailer) 
Punteggio ★★★1/2

Adattato dall’omonimo romanzo di Tanaka Shin’ya, vincitore nel 2011 del premio Akutagawa, e diretto da Aoyama Shinji, Tomogui è un cupo melodramma familiare che ha per protagonista un giovane diciassettenne, Tōma, nel Giappone della fine degli anni Ottanta. Figlio di genitori separati, l’adolescente Tōma teme, a ragione, di avere ereditato la natura violenta del padre (Madoka), e trova una conferma ai suoi timori quando tenta di prendere con forza la sua fidanzata, Chigusa. Il giovane abita col padre e la nuova compagna di questi Kotoko, ma va spesso a far visita la madre, Jinko, che vive del suo lavoro di pescivendola ed ha da tempo perso una mano. Alla donna, il figlio chiede di raccontare la sua vita con Madoka, per capire quanta parte dell’indole paterna e diventata anche sua. Il pur difficile equilibrio che governa i rapporti fra i diversi personaggi si infrange quando Kotoko, incinta, lascia Madoka e questi, pieno di rabbia, violenta la fidanzata del figlio, scatenando la furia vendicatrice di Jinko.
Tomogui è uno dei lavori più convincenti della carriera di Aoyama, soprattutto per la sua capacità rappresentare con efficacia l’orrore del male che ti contagia e prende possesso del tuo essere anche contro la tua stessa volontà. La messa in scena del film evita le derive del melodramma, optando per tonalità fredde che evitano di coinvolgere “troppo” lo spettatore. I personaggi sono tenuti a una certa “distanza”– anche lo stesso Toma, in qualche modo contagiato, per quanto incolpevole, dal “virus” paterno – e le “vittime” – quelle femminili, innanzitutto, come Jinko e Chigusa – non sono lì a suscitare una facile commozione.
Talvolta il film assume delle tonalità quasi horror – lo testimoniano i frequenti e inquietanti dettagli della protesi della mano di Jinko, che giocherà un ruolo importante nello scioglimento della vicenda – e le scene di sesso, come quelle degli incontri fra i due giovani, Tōma e Chigusa, nel ripostiglio di un tempio, hanno un che di freddo e meccanico, che le priva di ogni pathos, sia erotico, sia sentimentale. Quando, ad esempio, li si vede far l’amore per la prima volta, il particolare che più colpisce è il fazzoletto di carta con cui lei avvolge il preservativo usato, quasi che dell’amore a contare di più siano i suoi necessari accessori insieme a suoi residui naturali.
A rafforzare ulteriormente il tono poco partecipe del film concorre anche il suo strutturarsi in un lungo flash back – dove di fatto tutto è già accaduto e non è più possibile che i fatti si svolgano in modo diverso –. Oltre alle sue evidenti implicazioni psicanalitiche, il finale è esplicitamente edipico, i frequenti riferimenti storici del film – che nell’epilogo evoca il clima del paese durante gli ultimi giorni di vita dell’imperatore Hirohito e la fine dell’epoca Shōwa – induce a vedere nel personaggio di Toma, e nella sua predisposizione alla violenza, una sorta di metafora dello stesso Giappone, del suo passato ma soprattutto del suo presente, in un periodo in cui – quello odierno – nuovi sentimenti nazionalistici, un aumento delle spese militari e la costituzione di un vero e proprio esercito – e non più semplicemente di una forza di autodifesa – si affermano nelle scelte politiche del governo del paese. [Dario Tomasi]

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