Norowareta ie – Zoroku no kibyō (爛れた家, The Ravaged House: Zoroku’s Disease)
Link : Midnight Eye (Nicholas Rucka)
Zoroku (Morishita Satoshi) è un bravo ragazzo che vive, insieme ai genitori e all’affezionata sorella Haruko (Kawaguchi Marie), in un minuscolo villaggio immerso nella verdeggiante campagna giapponese. La vita della famiglia scorre in una placida allegria, senonché, da un giorno all’altro, Zoroku contrae una misteriosa malattia degenerativa che ne trasfigura progressivamente le fattezze, riducendolo in poco tempo a un ammasso di carne fetido e purulento. Se il padre nega a sé stesso e ai compaesani insospettiti la realtà dei fatti, la madre e, soprattutto, la sorella, non si mostrano troppo spaventate dalla metamorfosi di Zoroku, e seguitano ad assisterlo amorevolmente. Esasperato dalle pressioni della gente del villaggio e dell’agonia del figlio, il padre decide infine che è giunto il momento di sopprimerlo. Haruko aiuta il fratello a fuggire, ma sulla loro strada incontreranno un ragazzo geloso delle attenzioni che la ragazza rivolge al fratello.
Realizzato nell’ambito di un progetto di sei film (denominato “Hino Hideshi’s Theatre of Horror”) con cui la Pony Canyon ha deciso di celebrare il celebre mangaka “maledetto” Hino Hideshi (autore, tra l’altro, del secondo capitolo della controversa serie di gore estremo Guinea Pigs), Zoroku’s Disease è un piccolo film studiato per il mercato video, e tuttavia supera di gran lunga le aspettative che è legittimo nutrire per operazioni di questo tipo. Kumakiri ha il merito di riuscire a tradurre in maniera efficace e del tutto personale quello che è il principale elemento di originalità dei manga di Hino, ovvero l’associazione contrastante di stomachevoli soggetti horror a un disegno dai tratti semplici e infantili. Lo fa inserendo l’orrore della malattia di Zoroku in un contesto quasi bucolico, che non smarrisce la sua placida quotidianità nemmeno di fronte all’orrore, ottimamente fotografato (in digitale) a tinte pastello. Ma soprattutto, il regista evita accuratamente i cliché appartenenti ai filoni horror più in voga nel cinema giapponese contemporaneo, tenendosi a debita distanza sia dai fantasmi vendicativi eredi del cinema kaidan, ancora di moda nella prima metà degli anni Duemila, sia dagli sberleffi compiaciuti dei film zombie-splatter alla Iguchi Noboru che proprio in quel periodo iniziavano a prendere piede. Come del resto ci si poteva attendere dal regista del sanguinolento Kichiku dai enkai (Banquet of the Beasts, 1997), nel film di Kumakiri l’orrore è qualcosa di puramente fisico, quanto di più distante dai canoni dello “psycho-horror”; e d’altro canto, manca in Zoroku’s Disease l’ironia che tipicamente stempera le atmosfere truculente dello splatter.
L’unico punto di contiguità con gli eredi di Ring (Nakata Hideo, 1998) è il tema dell’infezione che sconvolge una comunità più o meno vasta, privato tuttavia dell’elemento portante di opere come lo stesso Ring, Pulse (Kurosawa Kiyoshi, 2001) e The Grudge (Shimizu Takashi, 2002): quello del contagio (seppur metaforico). Qui la malattia, come sempre inspiegabile e ineluttabile, colpisce il solo Zoroku, a dispetto delle preoccupazioni dei suoi compaesani: è un fatto intimo e privato, su cui lo stesso ragazzo, ridotto a un corpo inerme, non si pronuncia mai. Lo stesso vale per la sua famiglia, che si limita a convivere con la malattia e a sopportarne le conseguenze al chiuso della casa infestata dalle mosche, all’oscuro delle imposte chiuse.
Non ci troviamo di fronte a un male dilagante che si appresta a invadere il mondo intero, e d’altro canto non c’entrano nemmeno il karma e le antiche maledizioni che pure trasfiguravano orrendamente i protagonisti del kaidan, perché la malattia di Zoroku è un tragico evento squisitamente privo di senso e lontano dalle logiche della causalità. Ci troviamo semmai dalle parti di Elephant Man, ma privando Zoroku (che si esprime quasi solo per lamenti e versi gutturali) della parola, e impedendo così al protagonista di ribadire la propria umanità, Kumakiri svuota quasi del tutto la sua opera del pathos drammatico che animava il film di David Lynch.
Il suo è un film minimalista tanto nell’intreccio (ridotto all’osso, poco dialogato e basato su un ristretto numero di personaggi) quanto nello stile di regia (inquadrature prevalentemente fisse, pochi ed elementari movimenti di macchina, uso parco del montaggio, abbondanza di piani medio-lunghi, rifiuto quasi totale dei meccanismi della suspense, colonna sonora mai intrusiva ma essenziale e ripetitiva, illuminazione naturale, effetti speciali molto artigianali e mai esibiti). Da questo lavoro di sottrazione, l’orrore che emerge riguarda unicamente la solitudine, lo sfinimento, la paura, il sospetto, l’insensatezza, la vergogna, gli egoismi personali, la mancanza di pietà, l’abitudine alla sofferenza e tutti quei mostri dell’animo umano che affiorano di fronte al manifestarsi di una malattia. Emerge tuttavia anche l’affetto sconfinato di Haruko per il fratello, e questo è ciò che fa di Zoroku’s Disease più una storia d’amore sui generis che non un horror vero e proprio. [Giacomo Calorio]