Due documentari di Imamura Shōhei (Two documentaries by Imamura Shōhei)
未帰還兵を追って~第一部 マレー篇 (In Search of the Unreturned Soldiers in Malaysia) (1971).
未帰還兵を追って~第二部 タイ篇 (In Search of the Unreturned Soldiers in Thailand) (1971).
Imamura parte dal Giappone per andare in Malesia e cercare di rintracciare i soldati giapponesi che non sono ritornati in patria dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Una ricerca che mette il regista giapponese davanti agli orrori della guerra, specialmente il massacro di Sook Ching del 1942, scontrandosi con una difficile e ancora complessa situazione geopolitica. Imamura riesce a rintracciare A-Kim, un ex-combattente dell’esercito imperiale nipponico che convertitosi all’Islam vive e si è integrato ormai definitivamente nella società malese.
Nel secondo documentario Imamura continua la sua ricerca in Thilandia, dove incontra tre ex soldati che discorrono con il regista dei loro ricordi e del loro sentire attuale nei confronti dell’Imperatore e dei massacri perpetrati formano con Outlaw-Matsu Returns Home e Karayuki-San, the Making of a Prostitute, una sorta di tetralogia in cui Imamura indaga e riflette sulle atrocità commesse dal Giappone durante il periodo bellico ma anche pone la sua attenzione su alcuni individui che ognuno in maniera diversa hanno deciso di allontanarsi e abbandonare la società giapponese in cui sono nati e cresciuti.
Come nel più famoso A Man Vanishes, anche questi documentari sono strutturati quasi come una spy story fin dalla primissima immagine del primo di essi, dove vediamo un aereo in decollo per la Malesia e degli ex soldati giapponesi impegnati nella Guerra del Pacifico che per un motivo o per un altro decisero di rimanere nei territori delle ex colonie. Il ritmo è serrato, sia nelle interviste mai troppo lunghe, sia nel montaggio. Anche quando ascoltiamo un’unica persona parlare, Imamura spezzetta e moltiplica il nostro punto di vista, inserendo immagini della città o della stessa persona ripresa da angolazioni differenti con la macchina da presa che non riprende quasi mai Imamura e l’intervistato direttamente ma che frappone fra l’occhio e l’oggetto ripreso sempre qualcosa, delle piante, un mobile, una strada trafficata.
Questi due lavori non sono solo un’indagine sulle atrocità perpetrate dall’esercito giapponese verso il popolo malese e thailandese, o dello svelamento del lento macinare della storia, come quando Imamura scopre un villaggio in Malesia completamente bruciato dagli inglesi perchè sospettato di essere covo di comunisti. Ma specialmente nel documentario sulla Malesia, quando il film incrocia un ex soldato convertitosi all’Islam più integralista, getta anche uno sguardo su quei percorsi di vita eccentrici, tracciati da persone che hanno passato e sono cresciute in un mondo ed in un tempo tragicamente particolare come quello della guerra e della mobilitazione totale. Nella voce e nelle parole dell’ex-militare avvertiamo tutta la distanza che ci separa dall’uomo e dalle sue esperienze che non possiamo nemmeno immaginare, ancor di più come spettatori del secondo decennio del terzo millennio, un periodo che si crede esente dall’influenza della guerra.
Il documentario è in queste due opere inteso da Imamura come un’attività che individua e mette in luce, o sotto una nuova luce, delle fratture storiche, insinuando il dubbio che tutto il tempo storico sia una composizione eterogenea di fratture e di eccezioni, umane e sociali, che rendono meno stabile il passato, storico o personale che sia, facendolo diventare così più fluido e complesso. Destabilizzando quindi anche un presente che di quel passato è intessuto, ed un futuro che sembra sempre più a senso unico ed impossibile da immaginare. In questo senso, il lavoro di Imamura nel particolare, ma un certo modo di fare documentario più in generale, si carica di un senso ampio che travalica di molto i limiti della settima arte o (ricordiamoci che si tratta di un lavoro per la televisione) della produzione visiva. È un movimento di apertura e scoperta (in senso lato) del reale, parresia. [Matteo Boscarol]