Bilocation (バイロケーション)
Shinobu Takamura è un’aspirante pittrice che ha lasciato il lavoro per dedicarsi strenuamente alla realizzazione di un quadro da presentare a un concorso. Insoddisfatta della propria opera, ritrova la serenità grazie all’incontro con un nuovo vicino di casa semi-cieco. I due si sposano e si trasferiscono nell’appartamento dell’uomo, ma Shinobu decide di tenere il proprio come studio per continuare a dedicarsi al completamento del quadro. Un giorno la donna viene fermata in un supermercato con l’accusa di essersi recata due volte di fila alla cassa con banconote recanti lo stesso numero di serie. Ancora incredula di fronte alla realtà innegabile delle immagini della telecamera di sorveglianza, Shinobu viene prelevata da un detective che le spiega che la donna mostrata sullo schermo era niente meno che la sua “bilocazione”, una sorta di doppelgänger la cui unica differenza dall’originale sembra essere quella di provare più intensamente determinati sentimenti reconditi. Stando alle parole dell’uomo, simili manifestazioni fisiche appaiono di quando in quando nei pressi di determinati individui come Shinobu e lo stesso detective. Dopo essere stata condotta in una misteriosa villa, la donna farà la conoscenza di altre persone vittime dello stesso fenomeno, e imparerà poco alla volta come affrontare il proprio doppio.
Nonostante i risultati non sempre all’altezza, Asato Mari prosegue nel suo tentativo di recuperare lo spirito originario dei J-Horror di fine anni Novanta e inizio Duemila, non tanto sfoggiandone l’ormai logoro bagaglio iconografico (fantasmi femminili vestiti di bianco, lunghi capelli neri che si animano di vita propria, tecnologie quotidiane), quanto riprendendone le atmosfere di incertezza, ambiguità e desolata ineluttabilità. A differenza del precedente Gomennasai che, nella sua apprezzabile semplicità, riproduceva quasi alla lettera il concetto, appartenente al classico del genere Ring di Nakata Hideo, di un male il cui contagio è dilagante e inarrestabile poiché insito nell’egoismo umano e nell’istinto di sopravvivenza, Bilocation sembra rifarsi maggiormente all’altro capolavoro del regista, Dark Water, sia nelle atmosfere dolenti di rinuncia e rassegnazione, sia per il tema, caro al cinema horror e là trattato più implicitamente, del doppelgänger. Il film di Nakata viene richiamato, tra l’altro, anche dalla presenza di Mizukawa Asami nel ruolo della protagonista, nonché dallo sfruttamento della struttura architettonica seriale del condominio, con i suoi ingressi anonimi e sovrapposti/sovrapponibili (i due appartamenti che giocano un ruolo cruciale nell’intreccio sono collocati l’uno sopra l’altro), come evidenziano i campi lunghi sui ballatoi. In tale utilizzo degli spazi, Bilocation ricorda anche uno dei migliori horror giapponesi degli anni Duemila, The Neighbour n.13, ugualmente basato sul tema del doppio, ma la memoria va anche a certe scene di Kotoko di Tsukamoto Shin’ya. Purtroppo, l’ultima fatica di Asato Mari non possiede l’impatto né del primo, né del secondo.
Il risultato si fa apprezzare abbastanza a livello di atmosfere, soprattutto nella cornice costituita dall’incipit e dall’ultima sequenza, ma tutta la parte centrale non regge il peso della sua macchinosità e presenta evidenti difetti a causa di una sceneggiatura che talvolta spiega troppo, talvolta troppo poco, finendo per risultare a tratti troppo lacunosa e confusa per essere seguita adeguatamente nei suoi meccanismi più complessi, a tratti eccessivamente ridondante nel suo didascalismo per riuscire a fornire al film un taglio puramente evocativo. Essa pecca inoltre di squilibri nello sviluppare i personaggi comprimari, ovvero le altre vittime di bilocazione, le cui vicende non vengono approfondite nella stessa misura. Del tutto fuori luogo appare anche la location della villa dall’aria gotica in cui si riuniscono i personaggi sotto la guida dei misteriosi Iizuka e Kagami (che in giapponese significa specchio – più didascalico di così!): i suoi interni spettrali secondo un immaginario di tipo occidentale finiscono per inquinare l’impressione di normalità e prossimità allo spettatore che ha sempre costituito uno dei maggiori punti di forza del J-Horror. E poi perché la scultura della locandina, nell’ingresso della casa? E come fanno le bilocazioni a condurre una vita propria, se ogni tanto spariscono?
A dispetto di alcuni buoni momenti, purtroppo Bilocation arriva incespicando alla sequenza finale, nella quale Asato torna a omaggiare con una certa efficacia il cinema di Nakata e Kurosawa Kiyoshi. Se la regista si fosse concentrata solo sulla vicenda della protagonista, o se per lo meno avesse mantenuto il suo film su un solo binario (quello dell’horror puro o quello del dramma psicologico, dato che fatica a gestirli entrambi), probabilmente ne sarebbe uscito un buon film. Peccato perché le premesse c’erano. [Giacomo Calorio]