Ikigami (イキガミ, Ikigami: The Ultimate Limit)
Ikigami (イキガミ, Ikigami: The Ultimate Limit). Regia: Takimoto Tomoyuki. Soggetto: da un manga di Mase Motorō). Sceneggiatura: Takimoto Tomoyuki, Sasaki Akimitsu, Yatsu Hiroyuki; Fotografia: Shibanushi Takahide; Montaggio: Takahashi Nobuyuki; Musiche: Inamoto Hibiki; Interpreti: Matsuda Shōta, Tsukamoto Takashi, Iizuka Sakura, Iizuka Satoshi, Emoto Akira, Hitori Gekidan, Fubuki Jun, Eguchi Noriko, Denden, Abe Ryōhei; Produzione: Sasaki Akimitsu per Tōhō; Durata: 133′; Uscita nelle sale giapponesi: 27 settembre 2008.
Il Giappone ritrova la prosperità e l’identità nazionale perdute grazie a una legge che prevede che tutti i bambini, durante il loro primo giorno di scuola, vengano sottoposti a una particolare iniezione. In realtà, solo a un bambino su mille verrà inoculato, secondo un procedimento del tutto casuale e segreto, un letale dispositivo microscopico che si attiverà autonomamente tra i diciotto e i vent’anni. L’apparecchio è impossibile da individuare e da eliminare, e la pressione psicologica esercitata dalla totale imprevedibilità del decesso spinge la popolazione a dare il massimo negli anni della propria giovinezza, rendendo più competitiva l’intera nazione e diminuendo al contempo il tasso dei suicidi. Le voci di dissenso vengono messe a tacere tramite azioni di propaganda e astuti stratagemmi dissuasivi, ma un impiegato del governo incaricato di consegnare gli avvisi di morte (informando le vittime, il giorno precedente il decesso, dell’importante ruolo sociale che esse rivestono, nonché dei vantaggi dei quali potranno godere fino alla morte e, per finire, dei doveri che l’assegnazione comporta affinché i familiari della vittima possano beneficiare di un indennizzo), inizia a nutrire perplessità e preoccupazioni sulla disumanità del sistema, specialmente dopo essere entrato in diretto contatto con alcuni destinatari: nello specifico, un giovane cantante, un hikikomori e un uomo che si prende cura della sorella cieca.
Nel corso dell’ultimo decennio, le trasposizioni cinematografiche di manga sono diventate una tendenza dominante nel cinema giapponese, con tutti i pro e i contro del caso. Uno degli ostacoli che sovente minano la riuscita di questo genere di traduzioni, specie quando traggono ispirazione da fumetti destinati a un pubblico adolescenziale, è costituito dal linguaggio e dall’immaginario iconografico delle opere d’origine, altamente stilizzati e codificati, i cui cliché finiscono spesso per cozzare con il maggior grado di realismo connaturato al mezzo cinematografico. Tuttavia, l’operazione di adattamento dell’omonimo seinen manga di Mase Motorō (pubblicato in Italia da Panini) viene facilitata almeno in parte dallo stile sobrio e realistico adottato dallo stesso mangaka. Uno dei principali meriti di Takimoto consiste proprio nell’aver saputo rispettare lo spirito del fumetto, senza che per questo il film ne risenta in termini di autonomia di linguaggio, e nell’averne colto efficacemente le atmosfere che scaturiscono da una rappresentazione minimalista di scenari grigiamente distopici, colorata da una sorta di sentimentalismo umanista non privo di note melodrammatiche.
Takimoto mantiene la struttura sostanzialmente episodica del manga, affrontando un determinato contesto sociale attraverso storie individuali, legate tra loro dallo sguardo dell’impiegato protagonista che non funge solo da collante ma offre anche un silenzioso punto di vista sul loro insieme. Per comprensibili ragioni di sintesi, il film si concentra soltanto su quattro dei molti episodi che compongono il manga. Da un lato, ciò gli consente di sfuggire a una certa sensazione di ripetitività che minava la lettura del fumetto, la cui pur interessante struttura, alla lunga, mostrava la corda; d’altro canto, rispetto al manga, la riduzione dell’intreccio non offre tempi adeguati a una graduale evoluzione interiore del protagonista, la cui maturazione di una coscienza critica appare un po’ affrettata.
Per quanto riguarda il tema della società distopica, cui sia il manga che il film attribuiscono gli stessi connotati del presente invece di rivolgersi a immaginari fantascientifici (cosa che ovviamente facilita i paralleli con la società contemporanea giapponese, non certo estranea al sacrificio del singolo per il bene collettivo), esso non viene affrontato direttamente, ma è intenzionalmente relegato a sfondo e cornice delle vicende dei diversi personaggi che vanno a comporre questo inquietante mosaico sociale. Tralasciando il più possibile l’origine e il funzionamento del sistema, il film, forse ancor più del fumetto, si focalizza sugli ultimi istanti di vita delle vittime, evidenziando il modo in cui la legge si ripercuote sugli individui e, soprattutto, influenza le loro relazioni, che si tratti di amici come nella storia del cantante, o familiari come in quelle del figlio della candidata alle elezioni e dei due fratelli orfani. L’aspetto più intrigante è che il regista, come del resto già l’autore del manga, mantiene un punto di vista ambiguo sul sistema delle morti casuali, mostrandone sì i lati più agghiaccianti attraverso lo sguardo critico del protagonista, ma senza negarne gli effetti positivi tanto enfatizzati dalla propaganda governativa: pur nella tragedia, il modo edificante con cui si concludono le esistenze delle vittime (fa eccezione il caso dell’uomo che, nell’incipit del film, tenta di uccidere un vecchio compagno di classe che lo torturava, da piccolo) sembrerebbe dar ragione alle tesi dei sostenitori della legge, in quanto, in tutti e tre i casi, è “grazie” all’annuncio della morte imminente che sia i protagonisti, sia coloro che li circondano, trovano la forza per dare il meglio di sé, impegnandosi al massimo nella realizzazione dei propri obiettivi (anche quando paradossalmente essi consistono, come nel caso del padre dell’hikikomori, nel proposito di intraprendere una carriera politica per spingere il parlamento ad abrogare la legge). Ma l’esattezza della tesi su cui si fonda il sistema non diminuisce la portata della tragedia dei singoli, anzi: le morti insensate e inattese di questi agnelli sacrificali suscitano orrore proprio in quanto costituiscono la base su cui si fonda il benessere altrui. Ed è proprio questo l’assunto morale su cui il film si concentra invece di sfruttare i meccanismi del thriller inscenando un conflitto contro il sistema disumano (come avviene per esempio nei due Death Note di Kaneko Shūsuke e ancor più chiaramente nella seconda parte del manga, non trasposta al cinema), conflitto che viene accennato solo in extremis nelle ultime battute di un finale lasciato in sospeso.
In definitiva, un’opera discretamente interessante che può vantare un approccio intelligente e non banale al soggetto, pur tra alti e bassi (non tutti gli episodi sono riusciti in eguale misura, alcune situazioni appaiono eccessivamente stereotipate e talvolta, come nel gran finale coi ciliegi in fiore, il pathos prende il sopravvento sulla sobrietà). Dispiace solo che manchi di un’adeguata organizzazione del materiale, tale da fornire all’insieme un senso più chiaro, o almeno un’immagine più completa e sfaccettata. Una lacuna forse dovuta al fatto che il film sia stato realizzato mentre la serie a fumetti era ancora in corso d’opera, o forse alla difficoltà di riprodurre nell’arco di appena un paio d’ore la struttura corale del manga. [Giacomo Calorio]
🙂 🙂 🙂