Hito no nozomi no yorokobiyo (人の望みの喜びよ, Joy of Man’s Desiring).
Hito no nozomi no yorokobiyo (人の望みの喜びよ, Joy of Man’s Desiring). Regia e sceneggiatura: Sugita Masakazu. Montaggio: Hayano Ryô. Fotografia: Kitagawa Yoshio. Musica: Inaoka Shingo. Interpreti: Ōmori Ayane, Ōishi Riku, Yoshimoto Naoko, Nishi Koichirō. Produzione: 344 Productions. Durata: 85′. Anno: 2014. Premiere: Berlin Film Festival, 9/2/2014.
Punteggio ★★1/2
Haruna e il fratellino Shota hanno perso entrambi i genitori durante il terremoto, che ha completamente distrutto la loro casa. Vengono presto accolti dagli zii e dal nonno in una casa vicina al mare, e la loro vita torna tranquilla. Tutto sembra andare per il meglio, ma i due bambini sono tutt’altro che felici. Lo sforzo di non raccontare al piccolo Shota la verità sulla morte dei suoi genitori, mette tutti in una condizione di attenzione e di sospensione. Il bambino, da un lato, aspetta inutilmente il loro ritorno, mentre la sorella, che non riesce ad adeguarsi alla nuova scuola, è sempre più infelice. La tensione cresce, fino a quando la verità dovrà essere svelata.
Tutto, in questo film, ruota attorno all’assenza e al vuoto. Perché non tutto si vede e non tutto si dice. Anzi. Nel suo primo film da regista Sugita Masakazu (che ha al suo attivo una manciata di cortometraggi) racconta la vita in trance di due bambini subito dopo che il terremoto ha chiuso per loro una parentesi definitiva. E la prima scena, infatti, segue lo spaesamento di Haruna tra le macerie della sua casa distrutta. I suoi movimenti sono lenti, lo sguardo è vuoto. Attorno a lei il silenzio è insistente e quasi interrogativo, mentre rapidi dettagli chiariscono la situazione, aggiungendo dramma a dramma. Come a voler sottolineare che, dopo il terremoto, nulla è più come prima e tutti gli sforzi compiuti dagli adulti suonano come note stonate. Sugita adotta il punto di vista della bambina e ci immerge in una dimensione dove le sensazioni sono attutite (e proprio per questo enfatizzate). Cerca di mostrarci quello che non si può vedere. Il dolore, la paura, lo spaesamento diventano oggetti pesanti in queste immagini quasi sempre vuote, geometriche e fisse. Il passare del tempo è uno strappo alla continuità, un gioco spesso imprevedibile di accelerazione e dilatazione, i dialoghi hanno parole esangui perché non si può dire quello che si vorrebbe. E così Haruna, Shota e la loro nuova famiglia precipitano in una bolla di sapone, equilibristi lungo il filo della precarietà, sospesi in una continua finzione.
L’adesione costante al loro sguardo diventa, così, il motivo dominante di un film che vorrebbe essere austero e stratificato nella descrizione delle molte percezioni in gioco, ma che non trova sempre l’equilibrio giusto tra sobrietà e ripetizione. Si confondono i livelli di distanza fino a sfiorare il dato patetico. La festa di compleanno del piccolo Shota, il gioco infantile di tutti, i compagni di scuola che spiano i ‘nuovi arrivati’ e le scene di gelosia del cuginetto seguono stereotipi estranei ai momenti salienti del film, tradiscono un’atmosfera che avrebbe, invece, dovuto essere raggelata attorno all’impossibilità di agire. Bello il finale, il viaggio a ritroso dei due bambini da soli. La riscoperta del loro mondo, la confessione della verità e il salto nel vuoto di Harumi. Ci si ritrova finalmente di nuovo spaesati (come all’inizio, con il volto di Harumi immerso nella nebbia) sulla spiaggia con il vento e il sole che acceca. Pochi dettagli, nessun dialogo. Solo l’idea di un inizio, forse in parte didascalico, ma dolce e rasserenato. [Grazia Paganelli]