Kyōko to Shūichi no baai (今日子と修一の場合, Case of Kyoko, Case of Shuichi)
Kyōko to Shūichi no baai (今日子と修一の場合, Case of Kyoko, Case of Shuichi). Regia e sceneggiatura: Okuda Eiji. Fotografia: Haibara Takahiro. Scenografia: Takeuchi Kōichi. Montaggio: Nomoto Minoru. Musica Imamoto Hibiki. Interpreti e personaggi: Andō Sakura (Kyōkō), Emoto Tasuku (Shūichi), Wada Sōkō, Koshino Ena, Takeyama Takenori, Miyazaki Yoshiko, Hirata Mitsuru, Shibata Rye, Tabe Shū. Produzione: Obinata Atsushi, Andō Kazu per Zero Pictures. Uscita nelle sale giapponesi: 5 ottobre 2013. Durata: 134 minuti.
Fra le figure più interessanti, e ancora poco esplorate, del cinema giapponese degli anni Duemila c’è, certamente, il regista (e attore) Okuda Eiji, già autore di Shōjo (2001), Runin: Banished (2004) e Nagai sanpo (2006). Una filmografia, quella di Okuda, che inscrive il regista nella grande tradizione dell’umanismo cinematografico giapponese, oggi ancora in vita grazie al lavoro di registi come Koreeda Hirokazu e Kobayashi Masahiro. Rispetto al primo, però, Okuda presenta una maggiore vicinanza alle logiche dei generi, in particolare quelle legate all’universo del crimine, e, in rapporto al secondo, modalità di rappresentazione più sciolte e meno manifestamente intellettuali. Kyōko to Shūichi no bai bene testimonia la vocazione del regista all’indagine esistenziale, all’attenzione a personaggi emarginati, nello stesso tempo colpevoli e vittime, insieme alla capacità di legare tali soggettività ad un contesto sociale ben preciso, in modo da fondere l’uno e l’altro in una stessa unica dimensione.
Le storie parallele di Kyōko e Shūichi sono due storie di disperazione giovanili fatte di disagi, soprusi e silenzi. All’avviarsi del film tutto, o quasi, è già successo, e toccherà a flash back soggettivi raccontarlo allo spettatore: Shūichi ha ucciso il padre nel corso di un violento litigio in cui il genitore, ubriaco e disperato per aver appena perso il lavoro dopo trent’anni di onesto servizio, stava aggredendo la madre colpevole di aver tentato una mediazione fra i due litiganti. Kyōko, a sua volta, ha dovuto lasciare la sua famiglia (i genitori, il marito e il figlio) dopo essere stata vittima di uno scandalo per aver ceduto, giocoforza, il proprio corpo ai clienti e al direttore della sua società assicurativa. Giunta a Tokyo la giovane donna ha finito col convivere insieme a Toru, di fatto l’‘agente’ delle sue nuove prestazioni sessuali. Quando, a causa di una scossa di terremoto, Kyōko uccide accidentalmente con un coltello Toru, decide, non osando rivolgersi alla polizia, di farne a pezzi il cadavere – forse l’unica nota stonata del film, eccessiva in rapporto alla complessiva costruzione del carattere – e seppellirlo dentro una valigia.
Shūichi e Kyōko sono così entrambi vittime e colpevoli, e il film gioca davvero con abilità nell’elaborare tale ambivalenza. Per l’uno e per l’altro l’esistenza è segnata da un passato che li rende prigionieri e da cui non sono in grado di liberarsi (come testimoniano le diverse immagini di Shūichi, con la sua tuta da operaio, al di qua di una rete metallica).
Il film è così costruito come un racconto alternato, che passa dalla storia dell’uno a quella dell’altro, stabilendo una serie di evidenti paralleli visivi che rinviano alle colpe commesse, al senso di solitudine (attraverso immagini in cui le loro figure marginali sono dominate dallo spazio circostante e dal buio) allo sgomento provato di fronte alle news televisive relative al terremoto dove potrebbero aver perso la vita i familiari a loro ancora cari (la madre per lui, il figlio per lei). Entrambi, poi, tentano di sopravvivere con un simulacro di storia sentimentale: Kyōko, da una parte, legandosi conflittualmente e masochisticamente al suo protettore – così da far sì che l’accidentalità concreta della morte di questi non sia più affatto tale su un piano invece metaforico: lo uccide perché in qualche modo lui la fa continuare a vendere il proprio corpo –; Shūichi, dall’altra, si concede, ma solo platonicamente, all’affetto dimostratogli da una sua collega di lavoro (bello il momento in cui, attraverso un attento gioco di movimenti di macchina e spostamenti dei personaggi, il film esprime la vicinanza sodale e affettiva della ragazza). L’epilogo del film si svolge nelle zone colpite dallo tsunami del Tohoku, dove il paesaggio devastato (autovetture e imbarcazioni sopra i tetti delle case, ammassi di macchine in procinto di essere demolite) diventa tutt’uno con la desolazione interiore dei due protagonisti (fusione del soggettivo e dell’oggettivo).
La struttura narrativamente alternata della storia lascia presupporre un incontro fra i due personaggi principali, che forse a partire dalla loro simile desolazione esistenziale potrebbero trovare insieme la forza di risorgere. Il fatto che, nell’epilogo, entrambi si trovino negli stessi luoghi rafforza tale ipotesi. Ma la chiusa del film la smentisce risolutamente. Nessun happy end, nessun segno di speranza: in tre diversi momenti – che a loro modo segnano un progressivo avvicinamento prossemico – il film li raccoglie in una stessa inquadratura, senza che tuttavia ciò arrivi a determinare un vero e proprio incontro, bensì la sua mancanza.
La chiusa pessimistica di Kyōko to Shūichi no baai è ribadita da un altro e ancor più terribile ‘incontro’ mancato: quello fra Kyōko, da una parte, e il figlio e la nonna, dall’altra. Un ‘incontro’ che si risolve tutto in una serie di campi e controcampi silenti e disperati (4 lunghe inquadrature sulla madre, altrettante sul figlio e la nonna) affidati ad un gioco di sguardi incapaci di esprimere nient’altro che freddezza, distanza, e impossibilità di recuperare i guasti e gli errori del passato. [Dario Tomasi]