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Bokutachi no kazoku (ぼくたちの家族, Our Family)

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Bokutachi no kazoku (ぼくたちの家族, Our Family). Regia e sceneggiatura: Ishii Yūya. Soggetto: dal romanzo di Hayami Kazumasa. Fotografia: Fujisawa Jun’ichi.  Montaggio: Fushima Shin’ichi. Musica: Watanabe Takashi. Interpreti. Tsumabuki Satoshi, Harada Mieko, Ikematsu Sōsuke, Nagatzuka Kyōzō, Kurokawa Mei, Yusuke Santamaria, Ichikawa Mikako. Produttore: Nagai Takuro per Phantom Films. Durata: 117′. Uscita in Giappone: 24 maggio 2014.
Link: Sito ufficialeTrailer (Youtube) – Maggie Lee (Variety)

È straordinaria la capacità di Ishii Yūya di cambiare registro e riuscire a continuare a toccarci. Dopo la notevole storia corale di Fune wo amu (The Great Passage, 2013), che con toni quasi epici descriveva l’impresa lavorativa ed esistenziale della redazione di un dizionario, ecco ora, girato addirittura nello stesso anno, questa storia intimista di una famiglia toccata dalla malattia mortale della madre.
Un paese di provincia tranquillo e ordinato, come ci mostra una delle bellissime inquadrature iniziali sopra i tetti delle case. Una famiglia all’apparenza altrettanto tranquilla e normale: padre, madre, un figlio sposato con un bimbo in arrivo, un altro all’università. Reiko, la madre, è una donna spontanea e solare, esce con le amiche, incontra i figli viziandoli un po’, cura le piante di casa. Ma, come ci mostra la straordinaria sequenza nella sala da tè che apre il film all’improvviso quasi come se fosse la continuazione di un discorso già iniziato altrove, ogni tanto si assenta, insegue chissà quali pensieri per poi riemergere con il nome di qualcosa o qualcuno che è andata a ripescare nei meandri della sua memoria. All’inizio, queste assenze sembrano solo piccole stranezze, dovute forse all’età ma presto ad esse si aggiungono vuoti di memoria, errori nell’identificare le persone. Una visita in ospedale conferma le peggiori ipotesi: un cancro al cervello che le lascia più o meno una settimana di vita. Il marito è reso impotente dalla disperazione, tutte le responsabilità ricadono su Kōsuke, il figlio maggiore, mentre Shunpei, il minore, sembra aver difficoltà ad uscire dallo spirito ancora un po’ infantile della sua età e a comprendere l’entità della tragedia.
Con il passare delle ore, il quadro si modifica progressivamente, rivelando verità diverse da quanto appariva. Emerge infatti che la situazione economica dei genitori è disastrosa: non riuscendo a far fronte alle rate del mutuo della casa, si sono indebitati fortemente e Kōsuke ha dovuto addirittura fare loro da garante. Come se non bastasse, Reiko, per trovare i soldi necessari per le spese quotidiane e con l’incoscienza datale dalla malattia apre continuamente nuove carte di debito che poi non riesce a rimborsare. Kōsuke, osteggiato dalla moglie, lentamente cede, fino a cercare conforto in una amante a pagamento.Shunpei, invece, proprio in virtù della sua iniziale spensieratezza e del suo essere trasparente, assume pian piano un ruolo più responsabile e utile per l’intera famiglia. Sarà lui a cercare smentite alla diagnosi tragica inziale e a trovare finalmente una diversa interpretazione dello stato della madre, che le consentirà almeno di essere operata e di spostare la speranza di vita dall’ordine giorni a quello degli anni. L’operazione ricongiungerà la famiglia. L’abbraccio dei tre uomini all’uscita di Reiko dalla camera operatoria difficilmente può lasciare insensibili.
Di film in film, Ishii Yūya va affinando un suo stile fatto di storie umane che ruotano intorno a un concetto di famiglia adeguato ai tempi, di inquadrature dall’alto talvolta quasi verticali, di primi piani intensi quanto ai movimenti dell’animo ma di campi lunghi o semilunghi per le scene più drammatiche, di musiche, fatte soprattutto da chitarra, pianoforte e batteria (con l’aggiunta talvolta di un violino), dolci e lievi ma sempre con una venatura malinconica.
Il tema della famiglia, appunto, pare consolidarsi film dopo film. Certo, non è la famiglia di Ozu o la rielaborazione popolare in chiave retorica di Yamada Yōji, o quella vista nel saggio di ricostruzione stilistica e citazionista di Koreeda, né tantomeno la famiglia disintegrata di Sono o altri. È la famiglia normale, corrente, ordinaria di oggi. Certo non indenne dagli attacchi di una realtà esterna disumanizzata e in via di progressiva disgregazione ma ancora sempre famiglia. Esempi di questa attenzione sono un po’ tutti i suoi film più recenti, come Kawa no soko kara konnichi wa (Sawako Decides, 2010) o Hara ga kore nande (Mitsuko Delivers, 2011). Persino Fune wo amu porta avanti un doppio discorso di “famiglia”, quella tradizionale che il protagonista costruisce con la nipote della padrona di casa, e quella più metaforica dei redattori del dizionario.
Ishii ha la capacità di raccontare e di raggiungere la nostra sensibilità senza dover ricorrere a iperboli stilistiche, come fa, tanto per citare uno tra i tanti, Nakashima Tetsuya (si veda il suo recente Kawaki, The World of Kanako, 2014). Con uno stile romanzato dolce e credibile, talvolta un po’ stralunato, ci racconta la vita, una vita che potrebbe anche essere la nostra [Franco Picollo]


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