Sanrizuka ni ikiru ( 三里塚に生きる, The Wages of Resistance: Narita Stories)
Sanrizuka ni ikiru ( 三里塚に生きる, The Wages of Resistance: Narita Stories). Regia: Otsu Kōshirō, Daishima Haruhiko. Fotografia: Otsu Koshiro. Montaggio: Daishima Haruhiko. Musica: Otomo Yoshihide. Materiale fotografico: Kitai Kazuo. Voci narranti: Yoshiyuki Kazuko, Iura Arata. Titoli: Yamada Asako. Produttori: Akamatsu Ryuta, Daishima Haruhiko. Produzione: Sukoburu Kobo.
I due registi Otsu e Daishima “ritornano” a distanza di più di 40 anni a Sanrizuka, la zona che dalla fine degli anni sessanta è diventata il teatro principale della resistenza di certa parte della popolazione contro il proprio stato, luogo che ha catalizzato scontri, lotte, proteste movimenti rivoluzionari di tutto l’arcipelago.
Sanrizuka è una delle zone dove sorge l’aeroporto di Narita, un’infrastruttura costruita anche per lasciare l’altro aeroporto, quello di Haneda, libero per i traffici militari durante la guerra in Vietnam, i bombardieri americani infatti usavano il territorio giapponese come punto d’appoggio da cui spiccare il volo verso le letali incursioni nel paese del Sud Est asiatico. Dalla fine degli anni sessanta quindi la zona di Sanrizuka è stata oggetto di espropri terrororiali ai danni delle popolazioni contadine del luogo; sfruttando il fatto che i contadini dei villaggi si erano lì insediati solo da una generazione, si pensava che sarebbe stato facile ottenere i loro terreni per la costruzione dell’aeroporto, ma così non è stato. Questo anche grazie al particolare momento storico, nel 1968-69, Sanrizuka diventa un’incredibile laboratorio di resistenza e di pratiche di lotte comuni, assieme ai contadini infatti lottano fianco a fianco gruppi studenteschi, zengakuren ma non solo, provenienti dalla capitale giapponese, movimenti ecologisti, anti-imperialisti e così via, trasformando il luogo in un crocevia fondamentale per le trasformazioni sociali, politiche ed antropologiche del Giappone moderno. Tutto questo è stato oggetto di una delle avventure documentaristiche più affascinanti mai registrate nel dopoguerra, la storia dell’Ogawa Production e dei suoi sette documentari girati dal collettivo a Sanrizuka nel corso di nove lunghi e decisivi anni.
Era necessaria questa lunga premessa per avere un’ idea più precisa della situazione, della storia e del significato che la parola Sanrizuka ha ancora oggi nel contesto sociale giapponese. I due registi con questo documentario ritornano sui luoghi delle lotte, il villaggio di Heta e tutti gli altri paesini oramai scomparsi ed inghiottiti dall’aeroporto di Narita, alla fine aperto, con molto ritardo e non come era stato inizialmente progettato però, nel 1978.
Il film scopre e ci presenta cosa significhi vivere a ancora oggi a Sanrizuka (il titolo originale infatti significa “vivere a Sanrizuka”) per chi in un modo o nell’altro non si è arreso, ma anche per chi lo ha fatto. Esistono ancora degli individui che si oppongono e resistono all’espansione dell’aeroporto, ancora in corso, e che vivono ai limiti delle piste di aterraggio e decollo, coltivando piccoli appezzamenti di terra. Molti di questi sono coloro che combatterono o parteciparono alle lotte 45 anni fa, sono, come si diceva, dei singoli, oramai lo slittamento sociale e politico e non permette più grandi gruppi e movimenti collettivi come 40 anni fa, e sono proprio le vite di questi soggetti che il documentario racconta, con tutte le contraddizioni necessariamente portate avanti e venute a galla in questi decenni.
Formalmente l’alternarsi fra il bianco e nero del 16mm del girato della Ogawa Pro, immagini risalenti al periodo 1968-1974, il colore in pellicola del materiale d’archivio dei tardi anni settanta ed il digitale del presente, fornisce oltre che una naturale ed immediata spazializzazione temporale, un percorso cronologico che è l’asse portante del film, anche un motivo ed un elemento in più per caratterizzare i cambiamenti del clima politico e sociale durante tutti questi 45 anni. Molto ficcante e dall’impatto lirico è l’uso di fotografie (realizzate da Kitai Kazuo) sempre in bianco e nero, specialmente in quella che è la parte centrale e più importante del documentario, quando i vari protagonisti ritornano su uno degli episodi cardine di tutte le lotte, il suicidio di Sannomiya Fumio nel 1972, un giovane leader della resistenza dei contadini che decise di togliersi la vita. L’evento è esplorato anche nel capolavoro dell’Ogawa Pro Heta Buraku(1974) l’ultmo film del collettivo nella zona, e qui in The Wage of Resistanceè visto in prospettiva è raccontato dagli amici del ragazzo e dalla madre stessa. Un dramma che non è stato per niente superato, nè da chi continua la resistenza nè tantomeno da chi con il tempo decise di vendere casa e terreno e di spostarsi in un’altra zona.
I due registi sono molto bravi a presentare allo spettatore i diversi punti di vista ed esperienze, ciò che ne deriva è un opera che in fondo è una profonda riflessione, senza nessuna risposta naturalmente, sul significato della rivolta e delle resistenze tout court. In una sequenza uno dei protagonisti che si ostina a coltivare la terra ai limiti dell’aeroporto sintetizza in poche parole come rivoluzione e resistenza alla fine rappresentino anche un percorso ed un’occasione di crescita personale. Le musiche di Otomo Yoshihide, artista che ha fornito le sue musiche a molti film indipendenti giapponesi negli ultimi anni, forniscono un collante ed un filo conduttore ideale che tiene insieme le varie parti del documentario.
The Wage of Resistances è anche un’ulteriore ed ottima occasione per fare delle riflessioni sull’esperire nella nostra contemporaneità dominata dall’immagine, dei vari tipi di formati, bianco e nero, 16mm, nastromagnetico, colore ed infine il digitale in cui sono girati gli incontri e le immagini del presente. Questo intrecciarsi ed alternarsi dei formati, inclusi i materiali fotografici di cui si diceva più sopra, offrono un’occasione affascinante per riflettere sulla costruzione della realtà attraverso l’immagine, ma è un discorso che qui ci porterebbe troppo lontano.
Il film si conclude, in maniera davvero toccante, dopo i titoli di coda con le immagini del regista Otsu, scomparso lo scorso novembre, brevi ma laceranti istantanee del cameraman giapponese durante tutti questi decenni a Sanrizuka, compreso il suo arresto durante le riprese di Summer in Narita (1968). Un omaggio più che dovuto per un artista che ha contribuito profondamente alla storia ed allo sviluppo del cinema giapponese e non solo, cameraman e direttore della fotografia per Tsuchimoto Noriaki, Hara Kazuo e Satō Makoto solo per nominare i nomi più conosciuti. Inoltre va ricordato che Otsu è stato anche il direttore della fotografia per Dolce di Alexander Sokurov. Il film è stato posto al terzo posto nella classifica dei migliori film dell’anno della rivista Eiga geijutsu. [Matteo Boscarol]