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Futaba kara tooku hanarete dainibu (フタバから遠く離れて第二部, Nuclear Nation 2)

nn2-7161390Futaba kara tooku hanarete dainibu (フタバから遠く離れて第二部, Nuclear Nation 2). Regia e montaggio: Funahashi Atsushi. Fotografia: Funahashi Atsushi, Yamazaki Yutaka. Musica: Suzuki Haruyuki. Musiche originali: Sakamoto Ryuichi. Produzione: A Wide House, Playtime. Produttore: Hashimoto Yoshiko. Durata: 114′. Anno: 2014. Berlin International Film Festival 2015 – Selezione ufficiale.

Link: Sito ufficiale  

Dopo il primo documentario, Nuclear Nation, uscito nelle sale giapponesi nel corso del 2011, Funahashi Atsushi con questo suo lavoro continua a seguire il destino della piccola comunità della cittadina di Futaba, una delle zone più vicine al reattore numero 2 di Fukushima colpito dal terremoto e dallo tsunami l’11 marzo del 2011. La sua videocamera segue in particolare la quotidianità della piccola comunità, costretta a vivere in una scuola nella prefettura di Saitama e poi in dei prefabbricati a Fukushima. Il film si apre con l’abbandono della sua posizione da parte del sindaco di Futaba che era stato uno dei protagonisti del primo lavoro e quindi funge da snodo per la restante parte del lavoro dove il focus del regista si sposta sulle difficoltà della piccola comunità nel trovare una sorta di normalità e di riprendere la vita quotidiana. 
Va notata una certa cura nella qualità delle immagini, soprattutto quelle che ci mostrano il paesaggio devastato dallo tsunami e dal terremoto, spesso accompagnate dalla bella musica scritta per l’occasione da Sakamoto Ryuichi. Queste funzionano spesso da cuscinetti che si frappongono fra le varie voci degli abitanti di Futaba. L’approccio di Funahashi è abbastanza mainstream e quasi televisivo per concezione, anche se molti non saranno d’accordo con questa definizione, montaggio abbastanza veloce e frequente uso di cut anche quando a parlare è una sola persona. 
L’unica eccezione, se così si può chiamare, nel ritmo del documentario è rappresentata dall’uso di fotografie d’epoca quando il film si sofferma a ragionare, per bocca di alcuni anziani abitanti di Futaba, sulle ragioni storiche che portarono alla costruzione della centrale di Fukushima e su come la situazione socio-economica dopo la seconda guerra mondiale fosse a dir poco drammatica, con quasi tutti i terreni posseduti da grandi compagnie, resti della antiche zaibatsu, e miseria dovunque. Un’anziana donna, pur condannando la negligenza dello stato centrale dopo il disastro di Fukushima, ricorda come l’avvento del nucleare fu salutato da tutti come una vera e propria manna dal cielo.
Quarant’anni, da quando la centrale fu costruita, fino al 2011 che sono stati vissuti in moderata ricchezza dalla maggior parte degli abitanti della zona. Un anziano padrone di un caffè ricorda così come il suo locale cominciò a guadagnare sempre di più proprio grazie alla bolla nucleare. Proprio queste scene che ci offrono il paradosso, dichiarato quasi sottovoce dai protagonisti, di come l’avvento del nucleare fu sinonimo di prosperità, sono la parte migliore del film dopo aver denunciato, giustamente, le enormi colpe della Tepco e dello stato giapponese a proposito della follia del nucleare. Questo approfondimento storico ci suggerisce come gli abitanti delle zone siano stati secondo alcuni imbrogliati e quasi costretti all’accettazione del nucleare ma secondo altri in qualche modo ammaliati dal patto col diavolo stilato a metà anni sessanta. 
Da puro giornalismo d’inchiesta è poi la parte in cui si vede un incontro fra tutti i sindaci giapponesi dei paesi dove si trovano le centrali nucleari. Quasi tutti concordano sul fatto che i media stiano gettando fango su un energia che in fondo resta sicura e che quindi le centrali, le maggior parte delle quali sono al momento ancora inattive, andrebbero rimesse in funzione. Parole tanto più agghiaccianti quando capiamo come ciò che muove le coscienze ed i pensieri di questi sindaci sono le preoccupazioni economiche. Interrompere il flusso di denaro generato da questi impianti significherebbe impoverire le comunità, secondo un pensiero che non vede piste e progetti alternativi e guarda solamente all’oggi. 
Un altro pregio di questo Nuclear Nation 2 è quello di saperci mostrare il dolore e le difficoltà di queste persone nel vivere insieme in centri di accoglienza prima e nei prefabbricati di emergenza poi. Lo spaesamento e la perdita delle proprie radici a seguito dell’allontanamento dal proprio quartiere e dalle proprie abitazioni vengono a galla quando agli abitanti è consentito ritornare per poche ore nelle loro case devastate e deserte all’interno della zona off limit. Nelle parole di un’anziana, ormai totalmente sola, e specialmente in quelle di una coppia di coniugi di mezza età che ricostruiscono davanti alla videocamera quello che era il senso della comunità e le abitudini del loro circondario si percepisce tutta la devastazione interiore ed il dramma che queste persone sono costrette a subire. Così come nelle parole di un altro signore la cui famiglia, discendente da una generazione di samurai del 1600, si ritrova a vendere tutte le sue proprietà all’interno della zona contaminata dove si è deciso che verranno accumulati i sacchi contenenti la terra radioattiva, una scelta fatta a senso unico che viene, ancora una volta, imposta dall’alto. 
In conclusione Nuclear Nation 2 è un buon lavoro che naturalmente paga la scomparsa dell’effetto novità che aveva il primo. A distanza di 4 anni è molto difficile per i documentaristi trovare un linguaggio cinematografico capace di dire o trasmettere qualcosa allo spettatore che non sia semplice inchiesta giornalistica. Funahashi ci riesce solo parzialmente specialmente nelle parti che ho cercato di descrivere più sopra. Forse paga un approccio che, benchè mosso da giusti principi, si rivela in alcuni tratti scontato in quanto vuole dimostrare una tesi, ripeto più che giusta, contro la Tepco e lo stato. Il lavoro si illumina proprio quando riesce a distanziarsi e a deragliare da questi binari, anche stilistici, prestabiliti e lascia spazio alle parole e ai silenzi degli abitanti di Futaba. Forse un lavoro più lungo che avesse dedicato più “pellicola” alle persone ed alle loro relazioni e traumi, cosa che il lavoro certamente fa, sarebbe risultato più ficcante ed interessante, ma con i se e con i ma tutto è più facile. [Matteo Boscarol]
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