Kawase Naomi’s An (あん, An)
An (あん, An). Regia e sceneggiatura: Kawase Naomi. Soggetto: Akikawa Tetsuya. Fotografia: Akiyama Shigeki. Montaggio: Tina Baz. Musica: Hadjadj David. Scenografia: Heya Kyoko. Personaggi e interpreti: Nagase Masatoshi (Sentarō), Kiki Kirin (Tokue), Uchida Kyara (Wakama), Asada Miyoko, Mizuno Miki. Produttori: Sawada Masa, Koichido Fukushima, Oyama Yoshito. Distribuzione: Durata: 113’. World premiere: 14 maggio 2015 – Cannes Film Festival. – Uscita nelle sale giapponesi: 30 maggio 2015.
Punteggio ★★
Sentarō gestisce un piccolo negozio di dorayaki – focaccine farcite di marmellata di fagioli azuki chiamata “an”. Ha i suoi clienti fissi, soprattutto studentesse, fino a quando, un giorno, Tokue, un’anziana signora, si offre come aiutante. Sentarō, sulle prime, rifiuta l’offerta ma cambia immediatamente idea quando Tokue gli porta ad assaggiare la sua deliziosa “an”. Grazie alla sua straordinaria capacità e alla sua ricotta segreta, gli affari di Sentaro fioriscono e tutto il quartiere accorre per mangiare le sue frittelle. Presto, però, le cose cambiano, perché Tokue è affetta dalla lebbra.
Tratto dal romanzo omonimo di Akikawa Tetsuya, An è un film atipico per Kawase Naomi, evidentemente un ‘esperimento’ lontano dalle sue corde, almeno per quel che riguarda il processo di trasformazione di un racconto in film. La regista di Nara per la prima volta non trae ispirazione dalla sua esperienza personale o da una sollecitazione interiore, anzi, compie il percorso inverso, cercando il suo sguardo dentro un microcosmo che non le appartiene direttamente. Questione di sfumature, di dettagli leggeri che, però, in un cinema costruito proprio sui dettagli, fa la differenza. Perché il risultato, pur nella delicatezza che contraddistingue il cinema di Kawase, è un senso di lontananza inedito, una strana inadeguatezza nell’aderire alla storia di un’amicizia che nasce in cucina. Fin dall’incipit, con Sentarō che si affaccia sui ciliegi in fiore, si sente lo spostamento dell’attenzione dal ‘dentro’ al ‘fuori’, da ciò che è invisibile, a ciò che invece rappresenta la quotidianità. Come i dorayaki, appunto, che prendono tutto un nuovo significato grazie alle mani di Tokue. Sono rigonfie e malate, da sole manifestano lo stato di salute dell’anziana lebbrosa, ma ne testimoniano anche l’attaccamento alla vita, il desiderio creativo che la cucina rappresenta in ogni cultura. Come spesso accade, il cibo si fa veicolo di incontro, alchimia che lega i personaggi e dona un senso nuovo alle cose. E così questa crema dolce di fagioli si trasforma in una ricetta della felicità, che insegna a Sentarō l’amore per le cose, alla giovane cliente fissa del negozio regala una famiglia atipica dove sentirsi a suo agio, mentre la brava Tokue ha potuto tramandare la sua ricetta della complicità.
Una storia semplice, quindi, quasi un racconto edificante, insolito e senza vigore, prevedibile e fin troppo lieve nella trasparenza di tonalità e ritmi tutt’altro che incisivi. Un’operazione che pare a tratti costruita dentro schemi estranei alla regista, tutta giocata sulla superficie delle cose, sugli effetti pratici dei gesti, sull’idea, tutt’altro che nuova, del cibo come strada verso la felicità e scintilla che può cambiare la vita. E poi ci sono i tre protagonisti a rappresentare tre generazioni e tre diversi modi di vivere la solitudine, ennesima adesione a stereotipi narrativi che avremmo voluto vedere inseriti in un contesto più rarefatto. [Grazia Paganelli]