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Il blog dedicato al cinema giapponese contemporaneo e classico

Shirakawa yofune (白河夜船, Asleep)


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Shirakawa yofune (白河夜船, Asleep) Regia e fotografia: Wakagi Shingo. Soggetto: da un romanzo di Yoshimoto Banana. Sceneggiatura: Suzumoto Kai, Wakagi Shingo. Luci: Yamamoto Hiroshi. Suono: Yamamoto Takaaki. Montaggio: Kikui Takashige. Interpreti: Andō Sakura (Terako), Iura Arata (Iwanaga), Tanimura Mitsuki (Shiori), Takahashi Yoshiaki. Produzione: Hatanaka Suzuko, Kochikawa Michio. Durata: 91′. World premiere: 6 marzo 2015 Osaka Asian Film Festival. Uscita nelle sale giapponesi: 25 aprile 2015.
Link: Mark Schilling (Japan Times)

Terako è una giovane ragazza senza lavoro. Un giorno la sua miglior amica si toglie la vita. Terako così trascorre le giornate nel suo piccolo appartamento per la maggior parte a dormire. Le uniche volte in cui esce è per incontrare Iwanaga, un uomo sposato la cui moglie è però in coma. 
Il film è tratto da un famoso romanzo breve di Yoshimoto Banana, in realtà una raccolta di tre racconti, conosciuto in Italia come Sonno profondo, ed arriva al cinema dopo più di un quarto di secolo dalla pubblicazione in Giappone (1989). 
Ricordo di averlo letto molti ma molti anni addietro e se la memoria non mi inganna, si può certamente affermare che le atmosfere ed il tono generale della pellicola rendano abbastanza giustizia al romanzo. Il regista è Wakagi Shingo che è anche fotografo ed il cui ultimo lavoro prima di questo era stato Totemu: song for home del 2009. Asleep è girato come in uno stato di continuo stupore, o meglio sarebbe dire di pervasiva catatonia,  una delle sue qualità migliori è proprio quella di riuscire ad abitare ed incarnare quella zona di confine fra sogno/veglia/ricordi che è alla base del film e del romanzo a cui è ispirato. I piani temporali sono spesso ribaltati e mischiati, non c’è una netta separazione fra ciò che viene prima e ciò che segue, per sua stessa costituzione si tratta di un lungometraggio che immaginiamo tenderà a dividere, c’è chi lo amerà e chi lo disprezzerà e questo perchè i pregi, almeno per chi scrive, sono anche i difetti per gli eventuali detrattori. 
L’andamento lento e quasi statico in alcune sue parti e la “vuotezza” dei personaggi – da intendere qui come condizione sia stilistica che interiore –  sono infatti il fil rouge che passa attraverso tutta la pellicola. In effetti nei primi venti minuti o ci si calibra sul ritmo, i colori ed il tessuto filmico delle immagini rimanendo rapiti dall’andamento quasi ipnotico, oppure non si riesce a entrare all’interno della narrazione e del mondo creato da regista e compagni. Il rischio del film è proprio questo, cioè di “annoiare”, specialmente quando visto non sul grande schermo. Ma una volta che si è entrati nel mondo della protagonista e si va verso la seconda parte del film, la qualità cresce così come il livello di sintonia. 
Il lavoro fatto in fase di fotografia dallo stesso regista stende come un velo di biancore ovattato su tutte le immagini. La maggior parte sono scene di interni dove il corpo della protagonista viene mostrato senza filtri, spesso vediamo scene di nudo, ma non sono mai immagini cariche di erotismo. Non condividiamo perciò quanto è stato scritto sul Japan Times dove il film viene definito un lavoro pregno di eros. Si tratta di scarne e semplici fotografie di vita anche quando i due protagonisti sorridono o fanno l’amore, di una vita che si va via via svuotando, decolorando tutto il paesaggio circostante. Proprio per queste ragioni, due scene su tutte si stagliano sul tessuto filmico quasi in sospensione fra vita e morte (e la moglie di Iwanaga in coma è un forte simbolo di tutto il film). Una è quella finale che qui non riveleremo, anche se narrativamente è totalmente secondaria allo sviluppo del film. L’altra è una macchia di colori, suoni e movimento, tutte caratteristiche quasi prossime allo zero durante i 91 minuti dell’opera che si crea quando la macchina a mano segue traballante Terako che attraversa un incrocio affollato. Una scena mirabile per il contrasto appena spiegato ma anche perchè ci sembra sia stata girata abilmente in guerrilla-style con il focus che resta per i pochi secondi di durata sulla ragazza e lo sfondo che, andando fuori fuoco, dipinge di colori la tela dello schermo e, allo stesso tempo ed in modo molto pratico, riesce a nascondere i visi e le reazioni dei passanti. La scelta di non usare musica, escludendo i titoli di coda e l’inizio, si muove nella stessa direzione estetica del film e cioè usare una fotografia “semplice” e quasi monotonale, ma non per questo scialba come spesso accade con molte opere giapponesi indie contemporanee. 
Se dobbiamo trovare dei difetti a questo Asleep, a parte il già citato approccio iniziale che richiede un resetting da parte dello spettatore, è un eccesso di lirismo in alcune parti, specialmente quelle in cui i due amanti si incontrano e si conoscono sulla spiaggia. La prestazione di Arata nel ruolo di Iwanaga è abbastanza solida nella sua algidità e ancora una volta Andō Sakura è davvero molto brava a trasformare espressioni, corpo e personalità e a inserirsi perfettamente nelle atmosfere opache del film, in un’interpretazione ancora una volta da incorniciare. I due attori si ritrovano qui dopo aver recitato nel bel film di Yang Yong-hi, Kazoku no kuni (Our Homeland), che fu il film giapponese in corsa per l’oscar un paio di anni fa. 
Una nota finale solo per sottolineare ancora una volta come Asleep vada visto, secondo il mio parere, come una sorta di film sperimentale, non nella storia naturalmente, ma nel modo in cui approccia visivamente temi così sfuggenti e ambigui ma con un forte ancoramento nella realtà come l’isolamento e l’impasse che quasi senza motivo sommerge talvolta le vite individuali, perchè non si può sempre dare la colpa alla società (individualista, capitalista, giapponese, etc.) e quindi volgere lo sguardo dall’altra parte invece di affrontare la vita ed i suoi momenti di ineffabilità e dolore. [Matteo Boscarol]
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