Soredake / that’s it (ソレダケ / that’s it)
Soredake / that’s it (ソレダケ / that’s it). Regia e soggetto: Ishii Gakuryū. Fotografia: Matsumoto Yoshiyuki. Sceneggiatura: Inagaki Kiyotaka. Montaggio: Takeda Takahito, Ishii Gakuryū. Musiche: Bloodthirsty Butchers. Effetti speciali: Tsujimoto Takanori. Personaggi ed interpreti: Daikoku Samao (Sometani Shōta), Nanmu Ami (Mizuno Elina), Ebisu Daikichi (Shibukawa Kiyohiko), Inogami Rakuhiko (Murakami Jun), Senjū Kan (Ayano Gō). Produttore: Ōsaki Hiromobu. Durata: 110′. Uscita nelle sale giapponesi: 27 maggio 2015.
Samao è un giovane reietto che un giorno ruba un hard disk a Inogami, un delinquente che dentro al drive custodisce i nomi e i dati delle persone da eliminare. Persone al punto più basso della scala sociale, prostitute, senza tetto, vagabondi che, secondo l’organizzazione di cui fa parte, bisogna eliminare. A capo di questo gruppo c’è Senjū Kan che finisce per catturare Samao e Ami, una prostituta innamorata del ragazzo.
L’inizio è scoppiettante, uno dei migliori della stagione cinematografica giapponese. Un paio di minuti prima della comparsa del titolo, un muro di suono ci colpisce mentre vediamo Samao rubare il drive e scappare inseguito da uno strano tizio. La potenza della musica, la forza cinetica sprigionata dalle immagini, dal montaggio e da inquadrature ravvicinatissime in soggettiva rivolte verso il viso, come quelle realizzate quando ci mettiamo una videocamera sulla testa per rendere l’idea, sono una scarica di adrenalina pura e quando arriva il titolo in pennellate di rosso sullo schermo è davvero un trionfo.
Putroppo, e forse inevitabilmente perchè non si tratta di un video musicale, il film continua su questi ritmi lungo 30 o 40 minuti per poi cedere un po’, non solo di ritmo, quando Ishii lascia il bianco e nero (o comunque il color seppia) e vira al colore. Non solamente a causa di questo cambiamento cromatico, anche se l’estetica era più d’impatto francamente in questa prima parte, ma perchè il film si siede un po’, la storia si banalizza e in generale diventa un po’ troppo verbosa, il plot sfocia quasi nella parodia, gli stessi attori protagonisti si lasciano andare in una recitazione più ostentata, forse per volere dello stesso Ishii, e con alcune sfumature leggermente comiche. Ma questo è puro Ishii, prendere o lasciare. Le scene tese, violente, alcune violentissime, e super cinetiche della prima parte, con l’incredibile musica sparata a volumi quasi illegali nella sala dove ho visto il film, si perdono un po’, come detto, in una trama che seppur interessante – i rinnegati, le non-persone come spettri in cerca di rivincita/rinascita, la necessità del male affinchè ci sia la luce – non viene resa però al massimo delle sue potenzialità e diventa un po’ troppo come dire, fumettistica (non trovando altre parole usiamo questo brutto termine rischiando di mereghettizzarci).
Una simile scelta non è per forza un difetto, ma per chi scrive questo è il vero limite di Ishii, quando invece i suoi ammiratori lo apprezzano anche per questo suo modo molto originale di fare cinema. Del resto, durante la cavalcata finale Ishii si ispira proprio ad un manga/fumetto che il protagonista legge, “Destroyer”, per compiere la sua vendetta. Anche gli attori di conseguenza, seppur tutti molto bravi, cadono in questa generale atmosfera di recitazione un po’ affettata e sopra le righe. La caratterizzazione dei due protagonisti però, Samao e Ami è molto potente, con un Sometani più energetico ed affascinante che mai, come è assai buona la performance della bella Mizuno Elina, che in alcuni casi è addirittura meglio del compagno a cui ruba la scena.
Come si diceva, dal punto di vista puramente tecnico della fotografia, il film è una festa: angolazioni insolite, improvvise accelerazioni della macchina a mano, fuori fuoco, macchie di colore, filtri colorati, luci e disegni di stampo impressionista che invadono tutto lo schermo nella parte finale del lavoro. Una riprova che Ishii finalmente sembra aver (ri)trovato lo stile in sintonia con l’epoca digitale.
Per quel che riguarda la musica, i suoni dei Bloodthirsty Butchers, la punk band che ha di fatto ispirato il lavoro tanto che Soredake/That’s it viene definito e presentato come un film rock Bloodthirsty Butchers + Ishii Gakuryu, sono un elemento più che mai fondante del lavoro. Musica che continua quasi ininterrottamente lungo tutta la pellicola, piccoli suoni, grattate di chitarra elettrica che improvvisamente diventano boati ed aggrediscono lo spettatore per poi svanire ripiombando la sala nel silenzio. Una tecnica che assommata alla violenza visiva di cui Ishii è maestro crea un connubio più unico che raro. That’s it segna anche il ritorno di Ishii alla metropoli, ai luoghi di ruggine ed abbandono della città, tetti dei palazzi, angoli dimenticati, anfratti fra palazzo e palazzo, un urbanscape che risuona alla perfezione con le vite da dimenticati, da ultimi e da reietti dei due protagonisti che, va notato, vestono quasi sempre di bianco, sorta di saio lattiscente che probabilmente sta a significare il loro stato di purezza. Ishii, poi, piazza spesso nelle inquadrature, talvolta in maniera più evidente, gli oggetti di quello che è il suo immaginario “religioso”, specialmente piccole statue di drago e di Ganesha, la divinità indiana della saggezza e degli inizi. Essendo il drago anche un simbolo di trasformazione e di taumaturgia è abbastanza chiaro come queste due divinità/creature si leghino con il percorso dei due protagonisti all’interno della narrazione, liberarsi dallo stato di reietti e di non-voluti su questa terra per poter rinascere. Questi passaggi, queste rinascite sono fondamentali nel film. Più di una volta il protagonista Samao è quasi morto e rinasce alzandosi di colpo e come brandendo due pistole e, come detto sopra, uno di questi passaggi, che coincide col momento in cui Samao decide di stare insieme a Ami e la loro relazione si cementa, è sottolineato dal passaggio al colore.
Si può certamente dire che con That’s it Ishii Gakuryū, dopo alcune prove decisamente opache, sia ritornato alla forma migliore trovando o adattando il proprio linguaggio al terzo millennio. [Matteo Boscarol]